Riassunto L'autore esamina l'idea di Freud, secondo cui l'inconscio non conosce tempo, mettendola in tensione con il nocciolo della riflessione filosofica novecentesca sul tempo (in riferimento soprattutto a Heidegger, all'ermeneutica, e al decostruzionismo di Derrida). Egli nota che, di fatto, il pensiero moderno ha promosso la centralità della dimensione temporale, e questo non ha mancato di modificare, in modo sottile ma radicale, lo stesso pensiero psicoanalitico. La sua conclusione è che partendo da una visione ortodossa in cui il tempo è escluso dall'inconscio, siamo giunti ad una visione in cui invece l'inconscio appare fatto quasi interamente di scarti e tessuti temporali. In particolare, si interroga sull' essenza della scoperta freudiana, che ha rivelato principalmente la natura interpretante dell'uomo. Il primato della dimensione interpretante è connesso elettivamente alla temporalità. Inoltre, l'autore avanza l'idea che la prospettiva postfreudiana della temporalità non vada nel senso della fusione fenomenologica degli orizzonti, ma nel senso del riconoscimento nietzscheano di una moltitudine incommensurabile di orizzonti e di temporalità. |
La Psicoanalisi
e il tempo di Sergio Benvenuto
(Testo della relazione presentata al Convegno «La psicoanalisi e il tempo», tenutosi a Napoli presso l'Istituto di Studi Filosofici nel maggio 1988, estratto da "Psicoterapia e scienze umane" n.4, 1996) scarica .pdf gratuito da qui |
Summary |
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In un racconto, Tutti gli uomini sono mortali, Simone de Beauvoir ha narrato la storia dell'unico essere umano immortale. Nessun avvenimento della vita poteva segnarlo, perché tale avvenimento era sempre in grado di annullarsi, in seguito, in un avvenimento contrario. Egli poteva fare qualsiasi cosa il padrone o il servo, il buono o il cattivo, il misantropo o il filantropo non poteva mai essere ciò ch'egli faceva. Perché per essere almeno un po' in rapporto con ciò che si fa occorre un orizzonte di irrevocabilità. Era un ente spoglio di ogni storicità, e, quindi, di quella che i filosofi chiamano «esistenza». Come commenta A. de Waelhens (1), «esonerato dalla legge della morte, egli era esonerato dall'esistere. Come un giocatore che fosse indefinitamente in grado di raddoppiare la sua posta, sarebbe liberato dal rischio del giuoco, ma allo stesso tempo incapace di giocare». Cosa avrebbe pensato Freud di questo racconto filosofico? Ogni freudiano come si deve dice che nell'inconscio non c'è tempo. Questo non significa solo che io posso sognare di essere simultaneamente un bambino, un adulto e un vecchio, ad esempio. Significa soprattutto che nel nostro inconscio ci pensiamo tutti immortali. Il fatto che prima o dopo dovremo morire è una «verità di fatto» che non tocca, per Freud, le nostre «verità di inconscio». Come dirà Lacan, la Morte non existe: la morte è sempre la morte dell' altro, mai la vera morte, la mia. Se una persona va dallo psicoanalista dicendo che ha paura di morire, l'analista, se è freudiano, non prenderà questa paura alla lettera: vi interpreterà dell' altro. Ma che altro? Per Freud il nostro inconscio ha in realtà paura della castrazione, cioè del dispiacere (per Freud l'impossibilità di godere, «castrazione», implica automaticamente dispiacere). Profondamente, ogni essere umano teme l'eternità del dispiacere, non la caducità del piacere di vivere. La morte è un dato di fatto a cui ci pieghiamo in forza del principio di realtà: l'esperienza ci insegna che, uno dopo l'altro, tutti gli uomini muoiono. Ma l'inconscio freudiano non impara quasi nulla dall' esperienza, quindi non impara la morte. Dietro la metafora della morte, il soggetto freudiano significa la sua angoscia per la fine di die Lust, del desiderio-godimento. Eppure, la morte temuta, desiderata o fantasticata si lascia ridurre solo con molti sotterfugi al Lustprinzip, al comando del Principio di Piacere/Desiderio (2), sovrano nell'inconscio. In altre parole, la pregnanza della morte e del tempo irreversibile nella vita mentale non è totalmente evacuata dall'economia di Lust. Malgrado tutti gli sforzi recenti (da parte di Lacan, Derrida, Habermas, Ricoeur, ecc.) di sfrondare Freud del suo fisiologismo, naturalisrno, «johnstuart-rnillismo», e di fame un campione dello strutturalismo, dell' approccio ermeneutico, o della decostruzione, va detto che anche qui Freud è rampollo di una cultura di base positivista. Per lui nell'inconscio non vige il principio di contraddizione, né c'è senso del tempo, perché per lui l'inconscio resta il regno pre-logico delle pure pulsioni. Il pre-logico è stato sempre pensato come positivo: non conosce la negazione, il nulla, introdotti dalla ragione e dalla coscienza. Siamo convinti difatti che un animale non sappia di dover non essere. Invidiamo l'animale, campione della vita pre-logica, per il quale la morte è sempre e solo la morte dell' altro animale. Come disse qualcuno, l'essere umano è il solo animale che sa di dover morire, e quindi l'unico animale che ride: ridere, sapere che si muore, sono sotto-prodotti della logica (del «processo secondario», direbbe Freud), che introduce la negazione nell'essere. Emerge, dietro queste tesi, una metafisica precisa: quella per cui la nostra parte pulsionale, dominata dal Principe del Piacere e del Desiderio, ignora l'ordine del reale, costruito dall'esperienza progressiva e secondo logica. A differenza del Dasein autentico di Heidegger, il soggetto inconscio non è-perla-morte, gli è accessibile solo il lutto e il sacrificio, vale a dire il dolore e la gioia per la morte dell' altro. Non a caso alcuni analisti, tra cui Melanie Klein, hanno finito con il rovesciare l'esclusione freudiana della morte. «L'angoscia ha origine nella paura della morte», recita infatti spesso la Klein. In questa tradizione la paura della morte diventa l'angoscia fondamentale, e originaria, di ogni essere umano, per quanto infante egli sia. Un analista kleiniano come Bion, quando elabora la sua teoria del pensiero, porta come esempio di angosce molto primitive del neonato un suo «sentimento di morire» (3). Si tratta qui ancora di una metafora? È come quando noi stessi enfatizziamo le nostre sofferenze dicendo «mi sento proprio morire»? Oppure qui Klein e Bion, scegliendo questo esempio così imbarazzante ed iperbolico, intendono dirci che c'è una preconception, un sapere innato della morte nel lattante? Che insomma, a differenza di quel che pensava Freud, il nostro inconscio non solo sa di morire, ma che addirittura questo sapere di morire è la matrice di ogni angoscia? Proprio perché la mia morte è qualcosa che non conoscerò mai, stranamente in certi sviluppi psicoanalitici si impone come prototipo di tutto ciò che l'inconscio conosce; e l'angoscia sarebbe la sequela emotiva di questo sapere. Prima di continuare, occorre segnare alcuni punti di orientamento. Innanzitutto, occorre chiarire quale è oggi il significato, per noi, della categoria temporale e, quindi, perché questa questione del tempo, in Freud e altrove, ci appassiona tanto. In effetti, quando parliamo qui di tempo, ci riferiamo all'interpretazione moderna della temporalità. Gran parte del pensiero moderno, come è noto, da Bergson a Prigogine, da Husserl e Heidegger a Derrida, ha posto la questione del tempo al centro della riflessione. La temporalità moderna è caratterizzata a mio avviso da alcuni tratti salienti: la sua dimensione di finitezza; il carattere di esperienza vissuta del tempo, più che di realtà oggettiva e assoluta fuori del soggetto; l'ammissione del carattere p/ura/istico della temporalità; l'opposizione ad ogni concezione fondata sul primato del presente e della presenza; /ast but not least, il primato metafisica del tempo rispetto allo spazio. Certo, il moderno privilegio del tempo è inscindibile dalla nostra assunzione della finitezza, innanzitutto temporale, di una finitezza che valorizziamo in quanto ad essa ci siamo una volta per tutte rassegnati. Del resto, il tema della finitezza si associa ad un altro tema classico: il tempo come dimensione del mutamento senza requie. I filosofi del nostro secolo non sono stati certo i primi a mettere in primo piano ciò che alla temporalità classicamente viene associato, il mutamento. Da Eraclito fino a Hegel, e a Nietzsche, i filosofi si sono spesso compiaciuti nel sottolineare che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, che insomma il tempo introduce una radicale incertezza ontologica, e anche morale. Tutto scorre, senza limite, ora e sempre; come dicevano i filosofi medievali: in modo sempiterno . Ma appunto, per Eraclito come per Hegel, e per Nietzsche, lo scorrere e il mutare sono eterni: nulla persiste eternamente, se non il mutare stesso. È quanto esprime ancora persino il pensiero nietzscheano dell'Eterno Ritorno. Ora, l' «eracliteismo» moderno introduce una dimensione invalicabile di finitezza: persino il mutamento cessa. Questo perché modello e paradigma sono diventati la vita, quindi la temporalità, umane, de-scritte come limitate. Da qui il successo filosofico del secondo principio della termodinamica, che profetizza «la morte termica» dell'universo: ad ogni processo evolutivo si accompagna, come sua ombra, il processo contrario dell'entropia. Da una parte, siamo convinti di vedere un incessante mutamento evolutivo che rende la società umana sempre più complessa; dall'altra, supponiamo un mutamento degradativo, che conduce irreversibilmente il mondo verso la quiete assoluta. Nemmeno il mutamento è necessariamente eterno. Infatti, la differenza moderna, rispetto ad ogni pensiero «eracliteo» precedente, consiste nel fatto che il tempo che ci interessa non è quello della fisica e nemmeno quello dello Spirito, Oggettivo o Assoluto, ma quello (di)spiegato dalla vita degli uomini. Non è lo scorrere del fiume ciò che oggi ci impressiona, ma lo scorrere del soggetto: grazie anche a Freud, il soggetto slitta, si sfalda, trasmuta. In quanto umano, questo tempo moderno non è più il tempo dell'estetica trascendentale di Kant, il tempo che, come lo spazio, è sintesi a prio~i che rende trascendentalmente possibile la nostra esperienza empirica. E piuttosto un tempo pensato a partire dalla sua fine, fine che gli dà consistenza. Il tempo tende ad apparire, insomma, più come un prodotto di esperienze che come una loro condizione. Una fragile costruzione di certe forme di vita, piuttosto che il loro contenitore o metronomo. Certo questo rimodellamento novecentesco della temporalità implica ipso faeto un nuovo dimensionamento della spazialità. Anche quest'ultima oggi non viene pensata più tanto in termini cartesiani e kantiani, come pura estensione, ma a partire dalla posizione del soggetto: viene pensata come connessa fondamentalmente alla specularità, e a ciò che la specularità implica: la riflessione e la simmetria, l'imago e il rovesciament~,. la speculazione teorica e il visibile. In altre parole, incentrando la descrizione della spazialità sulla figura dello specchio, la modernità ha identificato lo spazio con l'ordine della reversibilità. Ciò che appare eterno diventa un'illusione dello specchio: di uno specchio che, ri-flettendo, rende reversibile ciò che in verità è temporale, vale a dire irreversibile. Le stesse equazioni della fisica classica, il principio leibniziano di Ragion Sufficiente hanno una natura spaziale: le equivalenze sono reversibilità spaziali, mentre il tempo non eguaglia nulla, anzi, fa differire tutto. Strano destino quello dello specchio: fino al secolo scorso esso era metafora privilegiata dell' oggettività, del duplicato adeguato, del realismo che annulla ogni interferenza soggettiva. Nel nostro secolo, attraverso la riflessione freudiana sul narcisismo, e la provocazione surrealista sui paradossi dell'immaginario, lo specchio diventa la figura inquietante per eccellenza dell'illusione alienante, dell'inganno, della svista, della falsa oggettività. Mentre la nuova istanza di verità non più concepita come speculum veri passerà a figure connesse invece alla temporalità: il discorso, il corpo (in quanto muta, gode e muore), la scrittura, il differire. La verità stessa non viene più concepita come rispecchiamento (adaequatio rei et intellectus) ma sempre più come autenticità e tempestività, vale a dire come felice abitazione del tempo. E difatti tutta l'elaborazione teorica di Lacan sulla fase dello specchio, sulla paranoia, sulle «follie» della conoscenza e sull'identificazione immaginaria, cor-risponde alla topica freudiana: il regno dello spazio, ovvero la soggettività spazializzata, è l'ordine del riflesso e del rovescio, della reversibilità paranoidea dei luoghi. I! regno dell'illusione oggettivante, della falsa conoscenza. Del resto la conoscenza (a differenza della parola piena) per Lacan è sempre paranoica perché è speculare, quindi spaziale: ed è quindi inautentica, falsa. I! tempo invece, ripensato da Hegel in poi a partire dalla dia-logicità, dalla temporalità del discorso e della conversazione, è il dominio dell'irreversibilità. Lo storicista pensa che nulla si ripete nella Storia, se non come farsa. Nel tempo non c'è specularità, se non nell'illusione della farsa. E in questo senso la temporalità pare produrre ciò che da quando il mondo è mondo, cioè da quando la filosofia è filosofia non è fondabile: vale a dire l'individuo come finito e mortale. Il concetto di «individualità» difatti è inscindibile da quello di irreversibilità, di nonspecularità. Un individuo è in quanto non è equivalente a nessun altro, foss' anche il suo gemello omozigote; nessun individuo può vivere, magan alla rovescia, la vita di un altro. Si pensi ai diecimila specchi che affollano il palazzo a Xanadu di Citizen Kane, magnate del giornalismo, nel film di Orson Welles Citizen Kane (Quarto Potere): proprio perché Kane è riflesso fin troppo, moltiplicato dagli specchi, è dis-individualizzato. Kane difatti, nel film, è «uno, nessuno e centornila», un mistero. Ciò che è specchiabile per ciò stesso è reso reversibile, alienabile, generalizzabile, mentre l'individualità è detinibile come non-intercambiabilità. Perciò Cocteau ebbe l'idea geniale, nel suo bel film Orphée, di congiungere spazio e tempo facendo dello specchio il luogo dove abita e lavora la bella Morte, elegante signora innamorata di Orfeo e desiderosa di renderIo immortale, cioè senza tempo. La saggezza classica era pensata a partire da metafore spaziali, da equivalenze pitagoriche. Così, la nuova centralità del tempo implica un abbandono dell' antica saggezza intrisa di spazialità: misura, equilibrio, sezione aurea, proporzione, ratio, armonia. Invece la giustezza del tempo, la tempestività, non è nemmeno più esaltata come saggezza: la si persegue (segretamente) piuttosto come grazia, o savoir [aire, o autenticità. Le nuove virtù connesse alla temporalità non sono di fatti più misura spaziale (saggezza), ma occasione, tempestività e spontaneità: il tempo ci riconcilia con la contingenza, vale a dire con la radicalità ontica dell'evento. Il tempo ci fa pensare una felicità, una giustezza, sul versante dell' andare da parte a parte e non più su quello del cogliere il tutto. Se lo speculum è la figura moderna della spazialità, a quale figura allora si incaricherà di significare il nuovo primato del tempo in senso moderno? Direi alla speculazione. Intesa però ora non come capacità teorica riflessiva, ma nel senso economico-finanziario moderno, come l'astuzia di aumentare le proprie ricchezze giocando al rialzo di ciò che si è comprato. L'ambiguità del termine speculativo è uno scherzo delizioso che la lingua gioca al cartesiano con le sue idee chiare e distinte. «Speculare» certo viene da speculum: speculativo è anche un pensiero riflessivo che, come lo speculum del ginecologo, cerca di penetrare in profondità nelle cose. Ma è anche l'attività dello speculatore economico: di chi aumenta la propria ricchezza giocando sull'intervallo tra acquisto e vendita. Come nella lingua, anche nella riflessione più moderna questi diversi sensi dello speculare si implicano reciprocamente; ma a partire dal primato del senso economico-temporale. Non a caso lo speculatore economico, lo yuppie come George Soros, si attira gli improperi degli economisti «seri». Che cosa è così inquietante nella speculazione finanziaria? Il fatto che, agli occhi di chi crede nel fondamento, essa finisce con il privare di qualsiasi fondamento «oggettivo» il vero valore di un bene e di una merce. Si prenda l'odierno mercato dell' arte, tipico mercato speculativo. In che cosa consiste il valore economico di un quadro? Nel prezzo che il suo acquirente ha accettato di pagare. E perché questi se l'è sentita di pagare quel prezzo? Perché spera che un altro dopo di lui sarà disposto a pagare un prezzo ancora più alto. Il mercato è spesso «freudiano»: quel che avverrà in futuro determina après-coup il valore passato di una merce. La speculazione del mercato d'arte non si basa che su se stessa nel senso che non si basa sull' oggettivo valore artistico della merce, in quanto tale incalcolabile, perché questo «valore» è un prodotto della speculazione. Fino al punto che la teoria economica stessa viene rovesciata, «speculata»: ha valore economico «oggettivo» solo ciò che è speculabile, vale a dire ciò che può essere rivenduto ad un prezzo superiore a quello a cui è stato acquistato o prodotto. Eppure, benché non si fondi nel valore d'uso e nella mitica soddisfazione dei bisogni, sappiamo che la speculazione è comunque capace di produrre e distruggere ricchezza reale, i suoi effetti non sono meramente immaginari. Non credo che i decostruzionisti, americani o francesi, si offenderanno se dico che il loro modo di filosofare segna un passaggio dalla filosofia speculativa ad una filosofia speculatrice. Quest'ultima sfrutta l'inquietante «circolo errneneutico» di cui parlò Heidegger: lo chiamerei il circolo speculativo. Esso è il processo attraverso cui la validità di ogni interpretazione viene rimandata ad un rilancio dell'interpretazione stessa, che così non poggia mai definitivamente su una terra sicura, ma come in una spirale temporale prosegue la propria auto-generazione. Questa concezione «speculatrice» del resto produce addirittura una epistemologia (quella oggi sostenuta soprattutto da G. Bateson, E. Morin, L Prigogine, L Stengers, R. Thom e altri): l'idea cioè che ci sia una circolarità tra cause ed effetti. Gli effetti retroagiscono «speculativamente» sulle cause, le quali a un dato «tempo» risultano essere piuttosto effetti. Ciò che viene poi causa, in qualche modo, ciò che viene prima. Su questa falsariga, se cessiamo di vedere lo psicoanalista come qualcuno che opera sulla mente del soggetto col bisturi della parola, possiamo vederlo attraverso il modello speculativo: come uno sfruttatore del tempo. La temporalità, pensata modernamente, presenta un' altra specificità: rimandando ad una spazialità semantica ogni spiegazione e comprensione oggettiva dell'uomo, essa patrocina piuttosto l'interpretazione come irriducibile al sapere fondato e spazializzato. Ma in che senso l'essenza stessa dell'interpretazione, secondo la moderna ermeneutica, è connessa in modo intimo al tempo? Vediamolo appunto nella psicoanalisi. Ogni analista sa che non si può interpretare tutto al paziente, e soprattutto che non lo si può fare sempre. Ogni terapia attraversa degli stati, talvolta molto brevi ed effimeri, di grazia: periodi in cui il soggetto è permeabile alle interpretazioni, passati i quali non è più possibile incidere su di lui. Ora questa tempestività dell'interpretazione non è un dato esteriore, un'accortezza puramente tecnica, del processo analitico: non c'è un'interpretazione vera che deve essere amministrata tempestivamente per essere neonosciuta come vera, ma solo in quanto tempestiva l'interpretazione è vera (cioè autentica) interpretazione. L'analista ingenuo pensa che egli debba capire sincronicamente l'inconscio del paziente, attraverso un insight che ne com-prenda la processualità, e che si tratterà poi solo, via via, di snocciolargli delle verità a seconda delle opportunità, quando Il soggetto sarà in grado di tollerarle, di accettarle, di assorbirle, ecc. Una visione del genere tende a separare due livelli: uno atemporale della scienza, del sapere oggettivo sull' altro, e un altro livello temporale e tempestivo della pratica spicciola. Questa separazione di livelli è l' effetto di un auto-fraintendimento della psicoanalisi. Invece, il rapporto tra interpretazione e temporalità è più radicale. Intanto il ritmo temporale determina la specificità della cura analitica, in relazione alla magia per esempio. Sia il mago che l'analista operano con significanti, solo che l'efficacia del primo, precisa Freud, è fulminea, istantanea, mentre la psicoanalisi è «magia lenta» (4). Non a caso l'esperienza analitica si snocciola in tempi lunghi: occorre che il soggetto abiti un nuovo ritmo temporale. L'analisi è un processo, una storia, non un insieme di eventi. Si pensi al ruolo della Nachtriiglichkeit, della «posteriorità», nel pensiero di Freud. Nel suo esempio (5), una ragazza adulta riporta come una scena traumatica l'incontro casuale con un signore quando lei era una barnbina. Si appura che in realtà quella scena infantile era priva di risvolti sessuali:, a differenza di una scena sessuale con tratti superficiali simili svoltasi invece di recente, quando la ragazza era già una donna. Questo significa che un evento può diventare traumatico non subito, ma dopo anni, retroattivamente, quando viene re-interpretato alla luce degli sviluppi successivi. Lacan ha valorizzato molto questa proposta Ireudiana del «trauma retroattivo» elaborando tutta una dialettica dell' après-coup. Questa sua elaborazione è tuttora al centro di molto dibattito teorico in psicoanalisi, e non a caso, perché attorno a questo concetto si gioca, direi, l'essenza stessa della psicoanalisi. Di solito, si tende a dare un'interpretazione debole dei concetti di Nachtriiglichkeit, di après-coup: si dice che si tratta di concetti banali nella ricerca storiografica (6). Il senso «traumatico» della presa della Bastiglia, per esempio, è tutto après-coup perché chi prese la Bastiglia non poteva immaginare l'enorme significato storico di quella scaramuccia improvvisata. Il senso degli eventi storici viene dato sempre retroattivamente. Freud non farebbe qui che inscrivere la psicoanalisi nell' ambito del Metodo delle discipline storiche. Ma c'è un'interpretazione forte, meno rassicurante, e radicale dell' accento che Lacan ha messo sulla «posteriorità» freudiana. L'idea cioè che la ricostruzione dell'infanzia che l'analisi opera non abbia invece alcuna obiettività storica, che si tratti di una rielaborazione mitica del proprio passato. Tutto il passato che la psicoanalisi pretende di ri-costruire non sarebbe altro che la reinterpretazione di schegge temporali del passato alla luce dei problemi attuali del soggetto. Il presente reinterpreta sempre il passato (come la filosofia ermeneutica ha sottolineato), e l'analista non farebbe altro che aggiustare e rimodellare le interpretazioni spontanee (e nevrotiche) del soggetto. L'analista non restituirebbe una verità storica deformata o camuffata dal tempo e dalla rimozione, ma semplicemente offrirebbe una interpretazione del passato legittimante il cambiamento, vale a dire più adatta a modificare lo stato attuale infelice del paziente. In questo senso, la psicoanalisi sarebbe più pirandelliana di quanto essa non abbia finora creduto: «Così è (se vi pare)». (Anche se questo non significa che ogni soggetto sia disposto a bersi qualunque «così è»). Il risultato è che la verità dell'inconscio o del soggetto a questo punto ha un legame debole non solo con la verità scientifica, ma anche con quella storiografica. Appare molto più simile alla verità dell'artista e dello seri ttore, anch'essi speculatori del tempo. In effetti, quando l'analisi storiografica analizza un evento come la presa della Bastiglia, cerca di distinguere il valore mitico che essa ha assunto per i posteri dal suo ruolo causale effettivo, all'epoca. Lo storico dà per scontato che non c'è necessariamente coincidenza tra il significato storico di un evento e la sua efficacia causale; invece questa coincidenza è presunta dallo psicoanalista. L'analista non ce la fa a dire se quell'evento dell'infanzia realmente incise sulla storia del soggetto: si limita a constatare che oggi, o comunque posteriormente, non l'evento ma la sua interpretazione esercita un effetto. Dando questa interpretazione radicale dell'après-coup, in effetti affermiamo che l'interpretazione freudiana è senza fondamento. Per questo del resto è interpretazione e non sapere (nemmeno sapere storiografico), per questo la psicoanalisi è «analisi» e non scienza. Dicendo che è senza fondamento, voglio dire che non è possibile, per deduzioni e inferenze successive, arrivare ad un punto in cui le ipotesi di Freud risultino fondate su una terra solida, atemporale, stabile. Queste ipotesi non sono provate né verificate (come direbbe A. Gri.inbaum), oppure non sono falsificabili e quindi nemmeno corroborate (come direbbe K. Popper), oppure non sono fondate nell'intenzionalità costitutiva nel senso della fenomenologia trascendentale (come direbbe P. Ricoeur). Il fatto che non siano fondate non esclude però che esse possano essere efficaci, interessanti o verosimili. Esse producono, anche se ciò che producono non ha fondamenti extratemporali. La natura delle ipotesi analitiche, quindi la struttura della pratica che vi è connessa, è piuttosto speculativa, nel senso ternporalfinanziario. Non sarebbe difficile mostrare, avendo più spazio, che quando Freud parla di traumi, complessi, fasi libidiche, ecc., di tutto ciò che costituisce insomma la storicità ri-costruibile della vita, egli parla sempre di posteriorità retroattive, di après-coup, Il complesso interpretato risulta essere esso stesso solo una supposta passata interpretazione, in un rimando all'indietro senza fine. Detto in breve, non è solo l'analista che interpreta, ma l'inconscio stesso interpreta. L'analista non primeggia sull'inconscio, direi che invece lo asseconda. Le interpretazioni dell'analista possono essere efficaci perché esse riguardano a loro volta interpretazioni. In questo senso il concetto stesso di Deutung, di interpretazione, rispetto al pensiero originario di Freud, assume un rilievo diverso, più radicale; !'interpretazione non è solo lo strumento soggettivo con cui l'analista opera, ma è anche il campo oggettivo di cui l'analista si occupa. L'analista, interpretando, partecipa al lavoro re-interpretante del soggetto: scandisce diversamente, riattraversa trasversalmente, sposta le interpretazioni inconsce del soggetto. Non si tratta più solo di dire che le interpretazioni sono riconoscimento del desiderio, ma occorre riconoscere che il desiderio è fondamentalmente interpretazione. Che cosa è l'analisi non come la vedeva Freud, ma come vediamo noi oggi ciò che Freud vedeva? Quando diciamo che è una reinterpretazione dell'interpretazione che il soggetto fa del proprio passato, è ancora una prima approssimazione di ciò che va detto. Dobbiamo infatti chiederci: «In che cosa consiste, in fin dei conti, l'interpretazione analitica?». La nostra risposta sarà: «Nel senso psicoanalitico, essa è un modo di introdurre il tempo nelle nostre interpretazioni spontanee e "infelici"». Interpretare analiticamente è temporalizzare. Una nota storia cinese racconta che il miglior cavallo di un proprietario terrrero fugge via. Tutti i vicini si recano da lui per confortarlo, ma lo tro.vano. molto. tranquillo. «Come fate a sapere già che si tratta di una disgrazia?», dice .. E infatti, alcuni giorni dopo il cavallo fuggito torna, portandosi dietro altn 50 cavalli. I vicini tornano dal proprietario, questa vo!ta per rallegrarsi. Ma l'umore del nostro non è cambiato: «Siete proprio sicuri che debba rallegrarmi?», dice. Alcuni giorni dopo, il giovane flglio del proprretarro, cavalcando uno dei cavalli piovuti per caso, cade e si rompe una gamba. Stessa processione dei vicini, e stessa reazione del nostro. Qualche giorrno dopo scoppia la guerra, tutti i giovani vengono arruolati, ma non il figlio del proprietario perché ha la gamba rotta. E così via di seguito, come accade in queste storie cinesi, interminabili e aperte. Morale: il significato più ovvio e naturale degli eventi - a cominciare da! senso fasto o nefasto che si dà loro - non è mai oggettivo, assoluto, maèe sempre interpretazione. Dipende in quale serie mettiamo l'evento, secondo quale punteggiatura lo scandiamo. Gli eventi certo si dispongono lungo la linea continua del tempo newtoniano e kantiano: ma la loro identità dipende dalla scansione che noi diamo loro da dove mettiamo le virgole, e i punti e virgola, de-cidendo così sequenze «sensate». Come quando nelle fiabe si dice: «E vissero felici e contenti ... ». Un depressivo preferirebbe dire: «E morirono felici e contenti». Dato che in realtà ogni vita è una narrazione che finisce sempre con la morte del protagonista. Ma la fiaba dà un'interpretazione fausta degli eventi finendo di solito con le nozze, e non con il decesso. Ogni sconfitta ogni vittoria, è relativa alla punteggiatura che diamo agli eventi. E in questa punteggiatura consiste l'interpretazione. Forse è quel che voleva dire Nletzsche quando diceva: «Non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni» (7). Voleva dire: «Ci sono fatti solo nella misura in cui li punteggiamo». Con questo non vogliamo soggettivizzare, semplicemente, i fatti. Quando dico «noi punteggiamo» intendo «noi» come creature temporali, non come pure coscienze fuori del tempo che, con divino arbitrio, decidono quale senso dare alle successioni di eventi. Sarebbe meglio dire «gli evenri sono Interpretati dal tempo», che è però sempre il nostro tempo, quello della nostra esistenza mondana e mortale. Qualcuno può osservare che questa «apertura» del gioco contrasta con uno degli aspetti della temporalità moderna: il suo carattere finito. Ora, quando mettiamo l'accento sull'interpretazione, e sull'uomo come animale interpretante, presupponiamo la finitezza e la morte; ma questo non presuppone che l'evento della fine, o il momento della morte, abbiano una funzione strutturante. Proprio perché sappiamo che tutto finirà, anche se non sappiamo quando, dobbiamo interpretare. E ogni atto interpretativo implica la sua virtuale pluralità: non diversamente dal sapere che si pretende oggettivo, l'interpretazione è una scommessa, che ne suppone altre possibili. Gli antichi greci pensavano che il modo in cui una persona muore desse retroattivamente senso a tutta la sua vita, appunto perché la loro visione era «finitisra» e non «infinitista». Si interpreta sempre retroattivamente, a partire dalla morte. Ma appunto, la vera morte, la nostra, è sempre dopo: la presupponiamo, ma non la viviamo mai. Dire che l'essere umano è un animale interpretante, significa dire che egli scommette sulla propria morte. Una visione dell'infinito come fondante elimina invece il rischio interpretativo perché dà alla vita finita, concreta, o una assoluta insensatezza, oppure la schiaccia di Senso. J-L. Borges, nel racconto «L'immortale» in El Aleph, descrive degli immortali: la loro esistenza è intollerabile e insensata. Costruiscono una città assurda, bislacca, disperata, dove vivere eternamente, sognando nostalgicamente la morte. Contraria a questa «cattiva infinità» è la visione teologica che trova il senso della storia e del finito solo in istanze infinite, in Dio o nello Spirito Assoluto. Nemmeno in questa «buona infinità» c'è spazio per l'interpretazione, tutt'al più per una Fenomenologia dello Spirito. L'interpretazione implica il rischio e la precarietà di ogni scommessa. Il senso «moderno» è sempre sospeso all'ales della morte, della cessazione. Ogni attività interpretante esige un evento assoluto ma ignoto, quello della morte. Ma questo evento assoluto è sempre nel futuro, non è mai dato: come l'orizzonte, dà forma a ciò che è visibile, ma come tale non è raggiungibile. È stato un gran passo in avanti quello che Lacan ha fatto fare alla psicoanalisi quando ha messo in rilievo la sua dimensione temporale:' vale a dire i processi di scansione, punteggiatura, ritmo, taglio, «tempi logici». Egli non ha tanto proposto una nuova chiave interpretativa, ha avanzato piuttosto l'idea che ogni interpretazione, in fin dei conti, sia solo questione di punteggiatura, tempi e tagli. Di solito, gli analisti tradizionali sono molto più intellettualisti di quanto le loro teorie non lascerebbero supporre. Ad esempio, pensano che il contenuto, e quindi l'efficacia, di un'interpretazione consista nel significato delle parole che vengono dette. Lo stesso Freud cadeva in questa ingenuità: nei suoi scritti clinici, spesso lo si vede fare delle conferenze ai suoi pazienti, cercando di convincerli delle sue chiavi interpretative come se si trattasse di argomentazioni accademiche. Nel nostro apologo cinese, l'interpretazione invece consiste nel solo fatto che, quando i vicini si recano dal proprietario, non lo trovano giulivo o avvilito, ma indifferente come al solito. Quella faccia muta è tutto l'essenziale dell'interpretazione, e dice la stessa cosa della faccia inespressiva dell' analista classico: che il senso degli eventi dipende dall'organizzazione del nostro tempo. Qui consiste il vantaggio della buona interpretazione analitica rispetto ad ogni interpretazione ingenua o reattiva: la forza strategica del suo disincanto, la sua in-espressività. La partita che giochiamo non è mai già finita, e siccome non è ancora finita possiamo sempre dare, après-coup, un nuovo senso alle tukai, come dicevano i Greci, alle fortune, agli eventi. Ma proprio perché la partita, e il tempo, sono virtualmente illimitati, c'è interpretazione, dato che noi cessiamo sempre qualche cosa, direi arbitrariamente. Se non altro perché, un bel giorno, moriamo. La partita non ha una fine, ma finiscono i giocatori. I filosofi romantici trovavano il senso pieno e definitivo solo nell'Infinito. Noi, post-romantici, possiamo ri-trovare il senso invece solo nel finito, vale a dire nel ritaglio di scansioni finite nella caotica illimitatezza del divenire. Il senso è un atto di forza, l'introduzione arbitraria della morte, dell'individuo e del limite, nel magma. Ma proprio perché l'introduzione del senso, della morte e del limite è arbitraria, siamo confrontati ad una pluralità irriducibile di sensi e di interpretazioni. L'appello all'Infinito come senso vero garantiva anche l'eternità e l'universalità del senso: i destini finiti trovavano il loro vero significato nello Spirito infinito. Ma se invece troviamo il senso nel finito e nel limite, dovremo convivere in una frammentazione inesorabile degli orizzonti e delle interpretazioni. Allora, siamo costretti ad andare ancora un po' più avanti in questa nostra ricostruzione della costruzione freudiana dell'interpretazione e del tempo. Abbiamo detto che l'interpretazione analitica è sempre una reinterpretazione di qualcosa di già interpretato: che insomma l'interpretazione freudiana è «omeopatica»: interpreta non eventi, ma interpretazioni. Abbiamo poi aggiunto che queste reinterpretazioni consistono nel diverso modo di scandire temporalmente gli eventi, di introdurre una temporalità diversa nei discorsi che costituiscono la narrazione privata di ogni nevrosi. Il prossimo passo sarà di riconoscere che queste punteggiature, queste temporalizzazioni, non sono altro che sfasature o differenze temporali. Si tratta di innestare differenze temporali in altre differenze temporali. Che insomma interpretare è passare (dif-ferire) da una differenza temporale ad un'altra differenza temporale. In una vignetta di Quino, un bambino chiede a Mafalda: «Perché c'è incomprensione tra le generazioni?». E Mafalda risponde: «Quando vai al cinema ed entri che il film è già cominciato da un pezzo, tu non ci capisci niente, non è vero? E così con i nostri genitori: quando noi entriamo, loro sono già cominciati da un pezzo». Un altro tratto fondamentale della concezione moderna della temporalità è il suo pluralismo. Il tempo biologico, il tempo vissuto e il tempo legato ai ritmi della vita e della storia, non sono il tempo newtoniano e kantiano: la modernità si accorge della differenza tra temporalità diverse e incommensurabili. Queste diverse scansioni del tempo certo si intersecano: ma ne risulta un' orchestra di sfasature, di scarti tra le temporalità. I reportage antropologici ci hanno aiutato a relativizzare la nostra concezione «kantiana» del tempo: gran parte delle società primitive concepiscono il tempo come circolare, ricorsivo, e non come una linea irreversibile. Ciò che noi davamo come un'intuizione fondamentale, la freccia irreversibile del tempo, ci appare oggi il risultato di un training culturale, di un'interpretazione specifica (tra altre possibili) del tempo. Ma è interessante quando uomini con diverse intuizioni «a priori» del tempo si trovano a contatto e devono costituire una città comune o anche semplicemente fondare una famiglia. Allora se ne vedono di belle. Forse la nostra civiltà è il risultato di questi malintesi, di questi contrattempi. Quante incomprensioni nascono, inoltre, tra adulti e bambini per il solo fatto di non renderei conto che i nostri rispettivi tempi vitali sono diversi? Non ci accorgiamo che la nostra storia è in uno scarto tra il tempo astronomico e i tempi biologici. Man mano che si invecchia, il ritmo temporale rallenta, «il tempo vola» sempre più. Vola rispetto a come un giovane percepisce lo scorrere temporale. Un anno, a 40 anni, è quasi nulla; per un bambino è un intervallo lunghissimo. Un adulto passa un'ora con un bambino: per lui è un tempo di lunghezza 1, per il bambino è un tempo di lunghezza lO (8). Ma la sfasatura tra tempi biologici e tempo astronomico non è che lo scarto più evidente e drammatico. La storia umana è sempre storia degli effetti della collisione tra «tempi storici». È quanto Ernst Bloch a suo modo aveva cercato di centrare nella sua idea di Ungleichzeitigkeit, di nonsimultaneità del tempo storico tra individui e popoli, di multiuersum come coalescenza di temporalità diverse (9). Paradossalmente, la storia può essere vista, più dinamicamente, non come il dispiegarsi di eventi nel tempo, ma come la risultante eventuale di storie diverse, che si intersecano e tagliano tra loro, si interpretano vicendevolmente. In conclusione, l'accesso alla temporalità che ci viene offerto dalla psicoanalisi non è un accesso alla temporalità nel senso della fenomenologia. L'interpretazione fenomenologica della psicoanalisi è un vasto dossier che non pretendiamo qui di risfogliare. Ci limiteremo a qualche nota. La dialettica della temporalità è stata affrontata dalla fenomenologia con 1'ausilio di due nozioni complementari: la situazione e l'orizzonte. In quanto siamo sempre «in situazione», viviamo delle prospettive che possono essere vaste, ma pur sempre limitate da un orizzonte. L'orizzonte invece si presta ad essere sorpassato senza mai essere incluso. Ricoeur ha sottolineato questa fondamentale divisione della fenomenologia: Parlare d'un orizzonte in movimento vuoi dire concepire un unico orizzonte costituito per ogni coscienza storica da mondi estranei, senza rapporto con il nostro, nei quali ci ri-situiamo volta a volta. [Questa concezione] tende [ ... ] a scartare l'idea nietzscheana di uno biatus tra orizzonti mutevoli, nei quali bisognerebbe ogni volta ri-situarsi ... Bisogna far posto all'idea di una fusione tra orizzonti, che non cessa di prodursi ogni volta che, mettendo alla prova i nostri pre-giudizi, ci sforziamo di conquistare un orizzonte storico e ci imponiamo il compito di reprimere l'assimilazione affrettata del passato alle nostre attese di senso (10). Questa fusione degli orizzonti è un punto qualificante della concezione fenornenologica, e della morale che essa implica. Noi invece sottolineiamo, per tutto quello che si è detto finora, come la prospettiva più autenticamente post-freudiana (se mi si concede di chiamarla così) della temporalità non vada nel senso della fusione fenomenologica degli orizzonti, ma nel senso del riconoscimento nietzscheano di una moltitudine incornmensurabile di orizzonti e di temporalità. Difatti, piuttosto che come una Konstruktion, come diceva il Freud più tardo, io vedrei il lavoro del soggetto analizzante come una giustapposizione di tempi, come accade in" un bricolage surrealista o cubista. Nel bricolage i pezzi disparati non si fondono definitivamente nella nuova figura; nel bricolage surrealista ogni pezzo non perde la sua funzione originaria, non maschera la sua diversa provenienza, da qui quell'effetto ironico di assurda sovrapposizione. E che cosa è il sintomo, nevrotico o psicotico, visto alla luce dell'esperienza analitica, se non la rivelazione del fatto che ogni esistenza è un nodo di interpretazioni disparate che si sovrappongono come in un bricolage? Ma l'analista di fatto non sostituisce a questo bricolage di tempi un sapere «di tipo storico» vero, fondato su documenti incontrovertibili, piuttosto favorisce la costituzione di un altro bricolage, che potrà risultare al soggetto più felice, più autentico, piu bello, più comodo. In effetti, possiamo interpretare la seconda topica di Freud, e tutto un. aspetto del suo pensiero, nel modo seguente: la nostra vita. ha due poli di cui uno (das Ich) certamente è quello che punta alla fusione degli onzzonti, alla monocromia. La Logica e la supposizione di una Realta comune sono fe ;stanze principali di questa fusione omologante, universalizzante. Nella logica, ancora più che nell'inconscio non esiste il tempo, la logica tratta della verità in tutti i mondi possibili, e in tutti i tempi possibili. (Per questa ragione Lacan ha potuto affermare che l'inconscio freudiano, proprio perche' atemporale, ha una struttura fondamentalmente logica). Ciò che chiamiamo realtà fa eco all' appello per un fondo comune, all'istanza di un tempo assoluto che farebbe orbitare attorno a sè tutti i tempi particolari. L'universalità fusionale del razionalisrno, automatizzando la vita, annulla il tempo. La prova di una realtà comune e universale diventa la macchina, l'automatismo. La macchina è l'deale atemporale .non solo del razionalismo ma anche di alcuni soggetti, in particolare del soggetti ossessivi. In La freccia ferma (11), Elvio Fachinelli mostra come, appunto, il nevrotico ossessivo funzioni come la logica: secondo procedure automarizzate che annullano il tempo, cioè la scansione vitale e dlfferenziale. L' ossessività è una specifica forma di vita che vuol sottrarsi alla differenza temporale. .. L'altro polo invece è l'istanza (Es in Freud) dello lato, della sfasatura, dello scarto, o della différance in senso derridiano. Questo secondo polo è la promozione pericolosa della vita: opposto all' automatismo, è il polo che ci porta non a ri-conoscere l'universale, ma a ri-combinare particolari. Probabilmente la teoria freudiana non risolve questa tensione concettuale, ma la rappresenta, la incarna nel suo articolarsi discorsivo. Freud esprime l'inconscio, più che descriverlo. Si dirà che il risultato alquanto paradossale di questo nostro contributo è quello di rovesciare la concezione esplicita di. Freud: da una .visione in cui il tempo è escluso dall'inconscio, siamo giunti ad una visione in cui l'inconscio appare fatto quasi interamente di scarti e tessuti temporali. In effetti, contro la maggior parte dei freudiani, possiamo anche. sosten~re che la scoperta di Freud veramente importante, oggi, per noi alla fine del XX secolo, sia l'inverso di quella «freudiana»: è l'idea. secondo cui l'uomo è un animale interpretante, nel senso però che egli e intrappolato da interpretazioni di cui lui stesso non è 1'autore. L'uomo è interpretante perché già da prima è interpretato. Si dirà: ma Freud, attribuendo comunque all'inconscio l'ignoranza del tempo e della mortalità, non segnala anche appunto la resistenza o la rivolta di ogni essere umano contro questa moderna entusiasta rassegnazione alla finitezza? L'inconscio non è solo il luogo della soggettività autentica, ma anche quello della massima inautenticità. In effetti, la concezione di Freud è radicalmente ambigua. Sono possibili due interpretazioni fondamentalmente diverse di essa: una spazializzante (che insiste sulle topiche, e sulle topologie) e una temporalizzante. Da una parte possiamo considerare l'inconscio freudiano solo come un tessuto dilagante di temporalità: il desiderio, essendo interpretazione, è fatto di temporalità, cioè di differenze e di differimenti. Ma d'altra parte a Freud premeva anche attribuire all'inconscio ciò che gli si contrappone: vale a dire quella parte dell' esistenza umana che appunto nega la finitezza, la temporalità, l'interpretazione senza fondamento, il mutamento senza posa. È la parte ossessiva dell'esistenza, che insegue una logica atemporale che domini e controlli la vita. L'inconscio è il trionfo delle temporalità plurali, ma anche il suo contrario; direi anche che l'inconscio è il contrario di sé. L'inconscio non conosce contraddizione, secondo Freud, proprio perché è esso stesso tutto contraddittorio: il suo concetto stesso è contraddittorio. L'après-coup, la speculazione, la differenza, l'interpretazione, sono tutti concetti che si oppongono ad ogni discorso che pretenda di essere ultima tivamente fondato in qualcosa di solido, di certo. La tradizione filosofica occidentale di solito ha cercato il fondamento nell'ousia, nella presenza, vale a dire nel presente, solo il presente ha il carattere deIressere, della presenza. Nelle epistemologie, sia classiche che moderne, questa ousia, questo presente, è di solito rintracciato in atti di presenza soggettiva: nella tradizione cartesiana la mia presenza a me nel cogito, nella tradizione empirista la presenza del mondo a me nel percipio. La presenza si fondava nello specchio: o in quello che mi fa esistere perché vi leggo il mio pensiero, o in quello che fa esistere il mondo perché il mondo è il mio specchio. Le teorie scientifiche, i discorsi' veri, le storiografie veridiche, le memorie esatte, tutte hanno il loro fondamento di validità nella presenza dell' «io penso» o dell' «io percepisco», o in entrambi. Il tentativo di Freud fu di aggiungere un terzo fondamento possibile, «io godo» e «io desidero» (quasi un correttivo pascaliano: le cul a ses raisons que la Raison ne connait pas). Ma probabilmente il suo fallimento nello stabilire la solidità di questo fondamento costituisce anche il suo successo. Fallimento perché «io godo» ha solo in apparenza i caratteri della presenza e del presente. Infatti, come Lacan ha espresso a suo modo, il godere è sempre in qualche modo godimento dell' Altro: non fondamento soggettivo ma alienazione, non presenza ma rimando e memoria, non presente ma archeologia e/o progetto futuro. Ma è un successo anche, in quanto è fallendo la fondazione che una certa «grazia» interpretativa ha potuto rivelare la sua forza speculativa. Ed ecco l'oscillazione della tradizione freudiana. Da una parte l'inter~ pretazione che abbiamo articolato qui, che legge la psicoanalisi come una pratica sostanzialmente ermeneutica connessa alla ternporalità. Dall'altra un filone che cerca di assicurare disperatamente la psicoanalisi al discorso del Metodo, vale a dire alla ricerca di una verità fondante la soggettività intesa come presenza e/o specchio. Di solito appartengono a questo secondo filone i «freudisrni» che cercano di stabilire le vere origini di un complesso, di una nevrosi, di una perversione, di una struttura psichica. Naturalmente, questo equivoco è massicciamente presente in Freud stesso, che pare non rendersi sempre conto della vera portata anti-metodica della sua pratica. E così, in Costruzioni nell'analisi (12), ribadirà, ancora in tarda età, l'ideale storiografico secondo cui l'analista ricostruisce delle verità storiche, come l'archeologo. Anch' egli aveva bisogno di credere nel mito delle origini, vale a dire in una presenza originaria .. Noi non abbiamo più bisogno di crederci. NOTE: 1. A. de Waelhens, La psicosi, Roma: Astrolabio,
1974, p. 50. |
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