ATOPON-Relazioni
spazio-temporali e metafisica tradizionale
di Bruno d'Ausser Berrau fonte
Nella lingua greca c’è
una parola che esprime ciò che è straordinario e desta meraviglia;
questa parola è Atopon( Atopon ). Prima di vedere più da
vicino il perché il suo significato sia, per vie di non
immediata intuizione, connesso con lo spazio e le sue peculiarità,
è opportuno prenderne in considerazione la struttura specifica:
intanto è evidente come tale parola sia composta da due
precisi morfemi; il prefisso a- con funzione privativa
ed il tema -tópos, il quale è un luogo, un posto
ma nell’accezione più ampia è, appunto, lo spazio.
L’analisi radicale di -tóp [-os],[1]ci
fa intravedere la sua prossimità al lat. stupeo (s-tup-eo),
e lo stupor è ciò che ci colpisce da cfr. al ted.
stumpf (s-tumph),[2]smussato,
troncato, spuntato ovvero un qualcosa risultato dall’azione
del colpire e, di conseguenza, è evidente l’affinità
col gr. túptō, colpire, m’anche con lo
strumento túmpánon, timpano, tamburo, nel quale s’è
infisso un -m- eufonico ma, su quest’aspetto
acustico del problema, ci sarà modo di tornare più avanti.
Le conferme linguistiche di queste, apparentemente, strane
relazioni tra i concetti d’estensione e di percussione,
si spingono ancora più avanti: in ambito indoeuropeo, c’è
l’esplicito skr. tup, tuph, to hurt[3]mentre
gli stessi componenti radicali si ritrovano, di nuovo proposti
nella loro accezione spaziale, anche in un contesto semitico:
accad. ţuppu, tavola, ţap’um,
disteso, reso ampio, il vb. ebr. ţāphach,
to extend, spread ma anche – lato sensu
- l’ar. ţapha´, be full, abound.
Qui giunti,
è necessario avere presente che lo spazio è il luogo dell’úlē,[4]di
quella substantia, che è il supporto di tutti i mondi
e di tutti gli stati costitutivi della manifestazione universale.
In termini aristotelici, esso è <<il limite immobile
che abbraccia un corpo>>;[5]nel
nostro caso, il corpo è l’intera manifestazione e
pertanto lo spazio, inteso al più alto livello d’universalizzazione,
è l’insieme di tutte le estensioni particolari. Una
di queste è quella propria alla modalità corporea e, ad
essa, attualmente, apparteniamo: una sua forma di astrazione
è ciò che viene preso in considerazione dalla geometria
euclidea, il cui oggetto è quindi una fattispecie dell’estensione
tridimensionale.
Sul
piano microcosmico, un processo analogo è quello dell’iniziazione;
in tale fattispecie, il fiat lux della cosmogenesi,
ha il suo omologo nella trasmissione del quid[15]costitutivo
dell’influenza spirituale: esso verrà allora ad essere
l’ordinatore dell’oscuro caos psichico, caratteristico
della condizione interiore d’ogni profano.
È per tutte
queste ragioni che, anche sul piano della lingua, lo spazio
è connesso al colpire ed alla vibrazione acustica.
A questo
punto, si può ritornare a quell’átopon da
cui è iniziata quest’indagine. Átopía, in greco,
sta dunque ad indicare stranezza, eccentricità, stravaganza
ed assurdità; quindi, átopon è qualcosa di singolare,
di straordinario e d’incredibile; in altri termini,
la parola connota ciò che è fuori posto. Sino ad ora s’è
visto, come, ai significati ordinari - quelli recepiti dal
linguaggio comune - altri e più pregnanti appaiono a chi
indaghi dietro il proscenio: la straordinarietà scaturisce
dunque dal venir meno del contenitore del Cosmo che, per
la sua consustanzialità alla materia prima, implica,
al verificarsi, il rientro dell’intera manifestazione
nello stato indifferenziato; parimenti, in un ordine interno
al Manifestato, tale è la sorte, all’esaurirsi di
un ciclo particolare, d’ogni stato o grado dell’esistenza,
il quale verrà così ad essere riassorbito in quello che
è, ad esso, ontologicamente superiore.
Nel particolare
del terrestre mondo corporeo, lo spazio, unitamente al tempo,
alla materia, alla forma ed alla vita è uno dei fondamentali
parametri costitutivi di questa modalità d’esistenza.
Con evidenza, il suo annullamento provoca straordinarie
conseguenze, tant’è che, storicamente – anche
sul piano sociale quindi - le rappresentazioni d’ordine
utopico[16]se
non sono confinate in un ambito esclusivamente sacrale,
sono suscettibili d’essere poste quale progetto d’emendamento
di situazioni politiche e religiose esistenti. Cosicché,
in alcuni casi, dalla mera prospettiva ideale, queste visioni,
per virtù di volontà molto determinate, sono state espresse
con veri e propri interventi, provocando violente trasformazioni
della società senza però che la componente, volta allo scardinamento
del reticolo costituito dalle leggi soggiacenti questa realtà,
potesse davvero superarlo e vincerlo. Il risultato di quest’illusione
è sempre stato l’affermazione della supremazia delle
leggi ed il fallimento del sogno.
Terminata
allora la successione e contrattosi il tempo ad un istante,
ogni cosa verrà a coesistere nella simultaneità[20]con
la conseguenza che, a quel punto, il tempo si troverà mutato
in spazio.
Ciò
implica una dilatazione di quest’ultimo, tale da provocarne
l’elevazione ad una potenza superiore, inoltre, con
l’annullamento della successione temporale –
la quale, come già detto, è una delle caratteristiche fondamentali
dell’esistenza corporea – anche la durata transita
ad una diversa modalità di svolgimento.
Ove si
voglia comprendere l’intima natura delle realtà finora
prese in esame, s’impongono adesso alcuni approfondimenti
di natura concettuale.
Insomma,
qualsivoglia continuo, per la sua stessa natura, non può
ammettere l’esistenza di un “ultimo elemento”
perché dal punto di vista dei “componenti” esso
è, in quanto tale, un insieme indefinito. È chiaro allora
come ogni variazione abbia la sua “fine”, il
suo “stato ultimo”, il suo “limite”,
non in se stessa – perché, in realtà,[24]non
c’è un valore ultimo dei valori successivi della variabile
- ma “al di fuori”, con un saltus ovvero
una discontinuità necessaria. In quale senso, non c’è
davvero un valore ultimo della variabile? L’affermazione
sembra contraddire gli elementari presupposti dell’algoritmo:
noi sappiamo che, nel calcolo differenziale, si cercano
i limiti di un rapporto i cui due termini decrescono simultaneamente
secondo una certa progressione e tale che il rapporto stesso
conservi un valore fisso. Nel calcolo integrale, si cercano
i limiti di somme i cui addendi crescono indefinitivamente
mentre il valore di ciascuno di essi, altrettanto indefinitivamente,
decresce; è, infatti, necessario che entrambe le condizioni
siano riunite affinché la somma resti una quantità finita.
Il limite quindi di una quantità variabile è stabilito essere
una quantità fissa verso la quale la variabile s’approssimerà
fino a che la loro differenza sia sempre minore di qualsiasi,
ipotizzabile quantità. Ciò che è importante sottolineare
è come, ai meri fini del calcolo, il limite, allorché non
si trovi tra i dati del problema, sia stabilito in una precisa
quantità fissa mentre ciò che è necessario sapere, sia invece
di capire se la quantità variabile che, indefinitivamente,
s’avvicina al valore fisso del limite possa raggiungere
questo valore quale conseguenza della variazione stessa.
Tornando al nostro “scandaloso” assunto, dobbiamo
perciò comprendere perché il limite non debba essere inteso
quale ultimo termine di una variazione continua. Non è dunque
una questione di calcolo quella che qui ci poniamo ma, sia
ben chiaro, un tema concettuale ed è solo questo che ora
c’interessa.
È
allora sul calcolo e sul suo ruolo centrale nelle matematiche
contemporanee, che s’impongono adesso alcune riflessioni.
Riflessioni, le quali investono ciò che è oggi la matematica
nel suo insieme ma che, soprattutto, vogliono riferirsi
a com’essa sia intesa da certi suoi ufficiali cultori.
E ciò, affinché meglio si possa comprendere il significato
delle nostre precedenti puntualizzazioni.
Lasciamo
pertanto la parola al Carnap[25]e
vediamo com’egli distingua il calcolo da un sistema
semantico nel senso che <<…mentre gli enunciati
di un sistema semantico sono interpretati, asseriscono qualcosa,
perciò sono veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati
sono considerati da un punto di vista esclusivamente formale>>.
E, nell’ultimo aggettivo, sta proprio il punctus
dolens: il calcolo, dunque, con i suoi procedimenti
più o meno artificiali e sempre più elaborati, ha dato luogo
alla proliferazione di un’abnorme inflazione formale,
che ha portato a sviluppi totalmente indipendenti da ogni
significazione profonda e tali da raggiungere forme d’assoluta
autoreferenza. Esso è arrivato a produrre una specie di
complicato gioco per virtuosi dell’astratto ma nel
quale il contenuto di realtà – in specie quando s’applica
alla fisica - ovvero d’effettiva conoscenza della
natura è ridotto, di fatto, quasi a niente. Il motivo, di
quella che al fondo è anche una scelta e che risiede nella
volontà di coloro, i quali, secoli addietro, hanno creato
le premesse di ciò che siamo soliti chiamare mondo moderno,
sta nel loro spirito pragmatico, che trova, nelle possibilità
del calcolo, una sorprendente moltitudine di ricadute utilitarie
e tecnologiche. Il perché poi, pure astrazioni possano portare
a risultati empirici, implica uno sviluppo di considerazioni
sulla natura intima del reale che ci porterebbero fuori
dal tema presente.
Chi
non s’è mai occupato di quest’aspetto della
modernità fa forse fatica a rendersi conto di come, sul
piano intellettuale, i processi distruttivi siano stati
devastanti: il numero non solo ha perduto la sua valenza
simbolica ma sul piano stesso della quantità ossia su quello
meramente matematico, ad esso, s’è semplicemente sostituita
la cifra che lo rappresenta. Non per niente, oggi, altro
non si fa che parlare del digit e della digitalizzazione
di tutto il possibile: è come se al discorso nella sua congruenza
concettuale, si sostituissero meri giochi di lettere. Il
paragone non è casuale, sia perché le cifre stanno ai numeri
come le lettere alle parole (vd. ad es. le lingue semitiche
dove non c’è differenza di categoria),[26]sia
perché se la veste del numero è la cifra, quella della parola
sono le lettere. Proseguendo in quest’ordine di relazioni,
si può aggiungere che, allora, il corpo del numero ne sarà
la forma geometrica (a riprova i numeri triangolari, pentagonali
ed altro dei pitagorici) come della parola n’è, invece,
il significato. La perdita di tutte queste congruenze, implicanti
anche il valore “ideografico” di lettere e cifre,
ha portato a considerare ogni notazione come solo convenzionale
dando così all’arbitrio valore fondante. Pertanto,
aspetti, quali quelli in argomento, sono, allo stato attuale
delle matematiche, ampiamente incompresi proprio perché
il metodo infinitesimale non è solo un calcolo e, in alcun
modo, può definirsi un semplice metodo d’approssimazione.
La presenza di questa valenza metafisica deriva dal fatto,
volutamente ignorato anche se risaputo, che Leibnitz, nonostante
alcuni evidenti limiti dottrinari del suo pensiero, aveva
ricevuto precise influenze dai suoi diretti contatti con
alcuni ambienti di carattere esoterico[27]ed
esattamente rosacrociano:[28]è
da lì, che viene la sua attenzione critica nei confronti
dell’intuizionismo psicologico di Cartesio.[29]
Secondo Leibnitz la verità può essere colta in sé stessa
e non è funzione del soggetto percettore….ma anche
questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
Prendiamo
dunque le nostre quantità infinitesimali: esse saranno sempre
più piccole ma mai davvero nulle perché se diventassero
eguali a zero, pel concetto stesso di quantità, cesserebbero
d’essere tali perdendo anche la caratteristica di
variabili e questo, oltre a contraddire il principio di
continuità, fa sì che una variabile, sempre, differisca
dal suo limite. Tutto questo detto, niente però impedirà
che, e nel calcolo, e in qualsivoglia altra situazione il
limite possa essere raggiunto ma non era certo questo quello
che volevamo negare quanto piuttosto che, in alcun modo,
il passaggio al limite possa essere concepito come la conclusione
di una variazione continua: il risultato non è pertanto
raggiungibile per gradi, analiticamente, ma d’improvviso.
E qui subentra
l’altra accezione aristotelica della sýnechéia
da intendersi quale contiguità; del resto, per “definire”,
“limitare” una qualsivoglia condizione è implicito
che ci se ne debba trovare “al di fuori” ma,
parimenti, c’è continuità tra gli insiemi i cui limiti
si “toccano” e dal cui “contatto”
scaturisce una qualche unità,[30]che
sarà poi quella di un insieme superiore nel quale essi tutti
rientreranno. È come se, in due modalità d’esistenza
sovrapposte, ciò che nell’inferiore è presente quale
semplice tendenza, trovasse la sua piena realizzazione nel
transfert alla modalità superiore. Un altro modo
insomma d’intendere il passaggio dalla potenza (gr.
dýnamis) all’atto (gr. éntelécheia).[31]
E la corretta intuizione della relazione esistente tra potenza
ed atto è alla base della comprensione quindi anche del
concetto stesso di movimento.[32]
Il pensiero
logico-matematico contemporaneo ha abbandonato la cristallina
chiarezza di queste concettualizzazioni, fatto salvo Peirce,[33]il
quale, in maniera esplicita, nella sua contestatazione alla
definizione di continuo, proposta da Cantor,[34]espressamente
le richiama. In effetti, da parte di quest’ultimo,
la formulazione del concetto di continuum è paradossale
poiché lo vuole far scaturire dall’immagine stessa
del discontinuo, cioè da un insieme di punti o di posizioni
e, nel caso si prendesse in considerazione la continuità
temporale, ovviamente, da quella di un insieme d’istanti
(cfr. supra a proposito di Cartesio).
Nel calcolo,
con semplici regole pratiche, la discontinuità si verifica
al momento del risultato, quand’avviene il passaggio
dalle quantità variabili a quelle fisse: è, come abbiamo
visto, proprio tale brusco evento a rendere palese che siamo
alla presenza di un cambiamento di modalità. Ma la percezione
del transfert può essere resa anche con un altro
esempio: in una prova di materiali – diciamo, sottoposti
alle sollecitazioni di tensione - la rottura non è, infatti,
in alcun modo assimilabile alla tensione stessa, che sarà
evidenziata dalla semplice deformazione dell’oggetto:
lo status che ne risulterà sarà allora totalmente
“altro”. Ecco, dunque, di nuovo, un istantaneo
passaggio di modalità. La condizione propria, nell’ambito
del sensibile, alle quantità variabili è quindi perfettamente
assimilabile a quella del “divenire” - identico
alla Manifestazione universale - rispetto al Principio.
Nello specifico della modalità sensibile, avviene allora
che il suo principio immediato sia in altra modalità e quest’ultima
sarà, appunto, quella che gli scolastici chiamavano materia
subtilis e della quale né Cartesio, né i suoi amici
Gesuiti sapevano più bene cosa fare e cosa pensare. È pertanto
evidente come ogni modalità trovi la sua ragion sufficiente
nella “successiva” ed essendo questi stati,
logicamente, in quantità indefinita, l’insieme di
essi sarà il predetto “divenire” il cui rapporto
complessivo col Principio è quello già illustrato.
NOTE
[36]
Nella raffigurazione piana (cfr. Corbin, op. cit.),
sei di essi sono collocati, secondo la rosa dei venti,
in una disposizione anulare mentre il settimo ne costituisce
il cerchio interno. Coassiale però a quest’ultimo,
c’è un nucleo ulteriore; tale medius orbis
prende il nome di Airyanem Vaejah o Culla degli
Ari. Nella parte anulare di questa geographia imaginalis,
all’Occidente, si trova il Keshvar (med
pers) denominato Arzah (med pers., in avest.
Ar∂zaj): ciò è notevole, in quanto in ebr.
arez, è la terra e gli Ebrei, anche nel nome,
´ibry, esprimono un’origine “occidentale”.
Infatti, alla Ö ´ibr è connesso il senso di qualcosa
<<…qui est placé derrière ou au-delà,
ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour;
ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental,
etc. les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur
à celui des Arabes, en ont dérivé ‘ibry, [ebreo]
et les Arabes, ‘arab [arabo] par une
transposition de lettres qui leur est très-ordinaire
dans ce cas. Mais soit qu’on prononce ´ibry,
soit qu’on prononce ‘arab, l’un ou
l’outre mot exprime toujours que le peuple qui
le porte se trouve placé ou-delà, ou à l’extrémité,
ou aux confins, ou au bord occidental d’une contrée>>.
(in Fabre d’Olivet; La Langue
Hébraïque Restituée, L’Age d’Homme,
1985). Per metafora tratta dal senso d’oscurità
connesso al tramonto; stessa origine può essere attribuita
a §reboV, cfr. anche l’accad. erebu,
tramonto.
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