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ATOPON-Relazioni spazio-temporali e metafisica tradizionale
di Bruno d'Ausser Berrau fonte

Nella lingua greca c’è una parola che esprime ciò che è straordinario e desta meraviglia; questa parola è Atopon( Atopon ). Prima di vedere più da vicino il perché il suo significato sia, per vie di non immediata intuizione, connesso con lo spazio e le sue peculiarità, è opportuno prenderne in considerazione la struttura specifica: intanto è evidente come tale parola sia composta da due precisi morfemi; il prefisso a- con funzione privativa ed il tema -tópos, il quale è un luogo, un posto ma nell’accezione più ampia è, appunto, lo spazio. L’analisi radicale di -tóp [-os],[1]ci fa intravedere la sua prossimità al lat. stupeo (s-tup-eo), e lo stupor è ciò che ci colpisce da cfr. al ted. stumpf (s-tumph),[2]smussato, troncato, spuntato ovvero un qualcosa risultato dall’azione del colpire e, di conseguenza, è evidente l’affinità col gr. túptō, colpire, m’anche con lo strumento túmpánon, timpano, tamburo, nel quale s’è infisso un -m- eufonico ma, su quest’aspetto acustico del problema, ci sarà modo di tornare più avanti. Le conferme linguistiche di queste, apparentemente, strane relazioni tra i concetti d’estensione e di percussione, si spingono ancora più avanti: in ambito indoeuropeo, c’è l’esplicito skr. tup, tuph, to hurt[3]mentre gli stessi componenti radicali si ritrovano, di nuovo proposti nella loro accezione spaziale, anche in un contesto semitico: accad. ţuppu, tavola, ţap’um, disteso, reso ampio, il vb. ebr. ţāphach, to extend, spread  ma anche – lato sensu - l’ar. ţapha´,  be full, abound.

Qui giunti, è necessario avere presente che lo spazio è il luogo dell’úlē,[4]di quella substantia, che è il supporto di tutti i mondi e di tutti gli stati costitutivi della manifestazione universale. In termini aristotelici, esso è <<il limite immobile che abbraccia un corpo>>;[5]nel nostro caso, il corpo è l’intera manifestazione e pertanto lo spazio, inteso al più alto livello d’universalizzazione, è l’insieme di tutte le estensioni particolari. Una di queste è quella propria alla modalità corporea e, ad essa, attualmente, apparteniamo: una sua forma di astrazione è ciò che viene preso in considerazione dalla geometria euclidea, il cui oggetto è quindi una fattispecie dell’estensione tridimensionale.

Del resto, Platone è ancora più esplicito di Aristotele quando, nel Timeo,[6]fa coincidere lo spazio con la materia, definendo, con l’affermazione che non c’è spazio dove non c’è materia, il postulato di qualsivoglia cosmologia tradizionale o, detto altrimenti, escludendo il vuoto dalle possibilità di manifestazione.[7] Naturalmente, la materia in questione non è l’oggetto delle speculazioni dei fisici moderni[8]ma è, appunto, quell’assolutamente indeterminata ýlē, la quale sostanzia tutti gli stati d’esistenza. Essa è quindi una mera potenzialità la cui attuazione sarà il Cosmo. Lo spazio s’articola dunque in un Cosmo[9]ma, perché ciò avvenga, è necessario un incipit, il quale ordini il cháos  “informe e vuoto”[10]che è lo stato iniziale. Questo momento principiale è rappresentato dall’espressione sonora, dal Verbo.[11] Esso, attraverso l’imperativo del <<fiat lux!>>[12]determina l’azione di quel “raggio celeste” che, colpendo la ýlē, provoca una vibrazione armonica in grado di percorrerla totalmente: così facendo, mediante il passaggio dalla potenza all’atto, ne induce l’organizzazione in un’indefinita molteplicità di stati e modalità che, in tal modo, vanno a comporre l’Esistenza. Chiaramente, qui, il suono, espresso in una condizione logicamente anteriore alla manifestazione, deve essere inteso in senso puramente analogico rispetto a quello percepibile dai nostri sensi. Esso, per le dottrine tradizionali, è una qualità dell’etere mentre, per le scienze d’oggi, è una vibrazione che si propaga in un medium (aria, acqua, metalli…le attuali teorie non ammettono l’etere) con onde di pressione, percepibili dall’orecchio umano soltanto all’interno di un preciso spettro di frequenze. Pertanto, il suono concepito dagli antichi[13]è l’archetipo d’ogni vibrazione anche di quelle che l’odierna fisica attribuisce all’ambito delle frequenze elettromagnetiche: è per questo dunque che la luce - il lampo creatore - è generata dal Verbo: si potrebbe dire come questa concezione vibratoria del Cosmo sia uno dei pochissimi ancorché parziali punti di contatto tra le dottrine pre-moderne e le attuali concezioni della fisica. Questo suono inoltre non è prodotto nel momento stesso in cui agisce (il <<fiat!>>), esso – è opportuno ripetere - precede la manifestazione: è come un oggetto posto nell’oscurità; la folgore primordiale lo rivela per mezzo del cosmo e quando la manifestazione si sarà riassorbita nel suo Principio e torneranno le tenebre, quale tuono silente, continuerà ad essere nell’eternità. <<In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio>>:[14]al momento dell’illuminazione già era e quando questa cesserà, immodificato, ancora sarà.

Sul piano microcosmico, un processo analogo è quello dell’iniziazione; in tale fattispecie, il fiat lux della cosmogenesi, ha il suo omologo nella trasmissione del quid[15]costitutivo dell’influenza spirituale: esso verrà allora ad essere l’ordinatore dell’oscuro caos psichico, caratteristico della condizione interiore d’ogni profano.

È per tutte queste ragioni che, anche sul piano della lingua, lo spazio è connesso al colpire ed alla vibrazione acustica.  

A questo punto, si può ritornare a quell’átopon  da cui è iniziata quest’indagine. Átopía, in greco, sta dunque ad indicare stranezza, eccentricità, stravaganza ed assurdità; quindi, átopon è qualcosa di singolare, di straordinario e d’incredibile; in altri termini, la parola connota ciò che è fuori posto. Sino ad ora s’è visto, come, ai significati ordinari - quelli recepiti dal linguaggio comune - altri e più pregnanti appaiono a chi indaghi dietro il proscenio: la straordinarietà scaturisce dunque dal venir meno del contenitore del Cosmo che, per la sua consustanzialità alla materia prima, implica, al verificarsi, il rientro dell’intera manifestazione nello stato indifferenziato; parimenti, in un ordine interno al Manifestato, tale è la sorte, all’esaurirsi di un ciclo particolare, d’ogni stato o grado dell’esistenza, il quale verrà così ad essere riassorbito in quello che è, ad esso, ontologicamente superiore.

Nel particolare del terrestre mondo corporeo, lo spazio, unitamente al tempo, alla materia, alla forma ed alla vita è uno dei fondamentali parametri costitutivi di questa modalità d’esistenza. Con evidenza, il suo annullamento provoca straordinarie conseguenze, tant’è che, storicamente – anche sul piano sociale quindi - le rappresentazioni d’ordine utopico[16]se non sono confinate in un ambito esclusivamente sacrale, sono suscettibili d’essere poste quale progetto d’emendamento di situazioni politiche e religiose esistenti. Cosicché, in alcuni casi, dalla mera prospettiva ideale, queste visioni, per virtù di volontà molto determinate, sono state espresse con veri e propri interventi, provocando violente trasformazioni della società senza però che la componente, volta allo scardinamento del reticolo costituito dalle leggi soggiacenti questa realtà, potesse davvero superarlo e vincerlo. Il risultato di quest’illusione è sempre stato l’affermazione della supremazia delle leggi ed il fallimento del sogno.

L’attuale condizione umana, appartenente allo stato grossolano, ha invece suo principio e sua fine nello stato sostanziato dalla materia subtilis; quello che, nel mondo iranico, è conosciuto come Nâ-Kojâ-âbâd,[17]lett. il paese-del-non-dove ovvero l’esatto equivalente del nostro utopia. Per raggiungere questa condizione, non si può quindi passare per l’intervento concreto finalizzato alla terrena realizzazione della città ideale ma si deve aver presente come ciò appartenga a quello che Corbin chiama mundus imaginalis:[18]esso sarà raggiunto quando il <<tempo oscuro e denso>> (kathîf), nel quale l’umanità è precipitata con la Caduta, giungerà, dopo uno scorrere sempre più accelerato, ad una fine improvvisa.[19]

Terminata allora la successione e contrattosi il tempo ad un istante, ogni cosa verrà a coesistere nella simultaneità[20]con la conseguenza che, a quel punto, il tempo si troverà mutato in spazio.

Ciò implica una dilatazione di quest’ultimo, tale da provocarne l’elevazione ad una potenza superiore, inoltre, con l’annullamento della successione temporale – la quale, come già detto, è una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza corporea – anche la durata transita ad una diversa modalità di svolgimento.

Ove si voglia comprendere l’intima natura delle realtà finora prese in esame, s’impongono adesso alcuni approfondimenti di natura concettuale.

Il Cosmo – anche se, per adesso, la nostra attenzione è, soprattutto, rivolta a quella sua porzione rappresentata dal mondo sensibile o empirico - è, come abbiamo veduto, contrassegnato dall’estensione. Per poi meglio intenderne le caratteristiche è opportuno aggiungere come esso sia un continuum (gr. synechés) ovvero un <<qualcosa che è divisibile in parti sempre divisibili>>:[21]la presenza dell’etere ne conferma l’omogeneità con i corpi parimenti continui e continuità c’è in tutti i fenomeni, quali il movimento (gr. kínēsis) di cui questi corpi sono manifestazione. Insomma, è la continuità dell’estensione il fondamento di tutte le altre continuità, che contraddistinguono questa modalità dell’esistenza formale. In tale continuità deve essere compreso il tempo. Esso è continuo di per sé e non soltanto nella sua rappresentazione spaziale (necessaria perché è soltanto pel suo tramite che è possibile misurarlo), secondo quanto, imperfettamente, afferma Cartesio quando lo descrive costituito da una successione di istanti discontinui e con una creazione, quindi, assurdamente sempre in azione per rimediare alle soluzioni, appunto, di questa continuità. La bizzarria cartesiana appare ancor più evidente nel caso sia considerato il precitato fenomeno del movimento. In quest’ultimo sono all’opera due continuità: quella relativa alla sua condizione spaziale e l’altra attinente alla condizione temporale. È evidente com’esso non sarebbe s’una delle due fosse discontinua. Il famoso argomento di Zenone d’Elea deve, con molta probabilità, essere inteso a contrario, proprio quale espressa volontà del filosofo di mostrare così l’incompatibilità del movimento con le nemiche tesi atomistiche e quindi quale palese dimostrazione della loro assurdità.[22]

Le suddette considerazioni ci permettono di capire che anche molti altri fenomeni correlati – ad esempio l’accrescimento – ricadono nell’ordine del continuo. Su un piano più nettamente filosofico, John Dewey afferma che la legge di continuità <<significa comunque esclusione della completa rottura da un lato e della semplice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità del “più alto” al “più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il crescere e svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il significato della parola>>.[23]

Insomma, qualsivoglia continuo, per la sua stessa natura, non può ammettere l’esistenza di un “ultimo elemento” perché dal punto di vista dei “componenti” esso è, in quanto tale, un insieme indefinito. È chiaro allora come ogni variazione abbia la sua “fine”, il suo “stato ultimo”, il suo “limite”, non in se stessa – perché, in realtà,[24]non c’è un valore ultimo dei valori successivi della variabile - ma “al di fuori”, con un saltus ovvero una discontinuità necessaria. In quale senso, non c’è davvero un valore ultimo della variabile? L’affermazione sembra contraddire gli elementari presupposti dell’algoritmo: noi sappiamo che, nel calcolo differenziale, si cercano i limiti di un rapporto i cui due termini decrescono simultaneamente secondo una certa progressione e tale che il rapporto stesso conservi un valore fisso. Nel calcolo integrale, si cercano i limiti di somme i cui addendi crescono indefinitivamente mentre il valore di ciascuno di essi, altrettanto indefinitivamente, decresce; è, infatti, necessario che entrambe le condizioni siano riunite affinché la somma resti una quantità finita. Il limite quindi di una quantità variabile è stabilito essere una quantità fissa verso la quale la variabile s’approssimerà fino a che la loro differenza sia sempre minore di qualsiasi, ipotizzabile quantità. Ciò che è importante sottolineare è come, ai meri fini del calcolo, il limite, allorché non si trovi tra i dati del problema, sia stabilito in una precisa quantità fissa mentre ciò che è necessario sapere, sia invece di capire se la quantità variabile che, indefinitivamente, s’avvicina al valore fisso del limite possa raggiungere questo valore quale conseguenza della variazione stessa. Tornando al nostro “scandaloso” assunto, dobbiamo perciò comprendere perché il limite non debba essere inteso quale ultimo termine di una variazione continua. Non è dunque una questione di calcolo quella che qui ci poniamo ma, sia ben chiaro, un tema concettuale ed è solo questo che ora c’interessa.

È allora sul calcolo e sul suo ruolo centrale nelle matematiche contemporanee, che s’impongono adesso alcune riflessioni. Riflessioni, le quali investono ciò che è oggi la matematica nel suo insieme ma che, soprattutto, vogliono riferirsi a com’essa sia intesa da certi suoi ufficiali cultori. E ciò, affinché meglio si possa comprendere il significato delle nostre precedenti puntualizzazioni.

Lasciamo pertanto la parola al Carnap[25]e vediamo com’egli distingua il calcolo da un sistema semantico nel senso che <<…mentre gli enunciati di un sistema semantico sono interpretati, asseriscono qualcosa, perciò sono veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati sono considerati da un punto di vista esclusivamente formale>>. E, nell’ultimo aggettivo, sta proprio il punctus dolens: il calcolo, dunque, con i suoi procedimenti più o meno artificiali e sempre più elaborati, ha dato luogo alla proliferazione di un’abnorme inflazione formale, che ha portato a sviluppi totalmente indipendenti da ogni significazione profonda e tali da raggiungere forme d’assoluta autoreferenza. Esso è arrivato a produrre una specie di complicato gioco per virtuosi dell’astratto ma nel quale il contenuto di realtà – in specie quando s’applica alla fisica - ovvero d’effettiva conoscenza della natura è ridotto, di fatto, quasi a niente. Il motivo, di quella che al fondo è anche una scelta e che risiede nella volontà di coloro, i quali, secoli addietro, hanno creato le premesse di ciò che siamo soliti chiamare mondo moderno, sta nel loro spirito pragmatico, che trova, nelle possibilità del calcolo, una sorprendente moltitudine di ricadute utilitarie e tecnologiche. Il perché poi, pure astrazioni possano portare a risultati empirici, implica uno sviluppo di considerazioni sulla natura intima del reale che ci porterebbero fuori dal tema presente.

Chi non s’è mai occupato di quest’aspetto della modernità fa forse fatica a rendersi conto di come, sul piano intellettuale, i processi distruttivi siano stati devastanti: il numero non solo ha perduto la sua valenza simbolica ma sul piano stesso della quantità ossia su quello meramente matematico, ad esso, s’è semplicemente sostituita la cifra che lo rappresenta. Non per niente, oggi, altro non si fa che parlare del digit e della digitalizzazione di tutto il possibile: è come se al discorso nella sua congruenza concettuale, si sostituissero meri giochi di lettere. Il paragone non è casuale, sia perché le cifre stanno ai numeri come le lettere alle parole (vd. ad es. le lingue semitiche dove non c’è differenza di categoria),[26]sia perché se la veste del numero è la cifra, quella della parola sono le lettere. Proseguendo in quest’ordine di relazioni, si può aggiungere che, allora, il corpo del numero ne sarà la forma geometrica (a riprova i numeri triangolari, pentagonali ed altro dei pitagorici) come della parola n’è, invece, il significato. La perdita di tutte queste congruenze, implicanti anche il valore “ideografico” di lettere e cifre, ha portato a considerare ogni notazione come solo convenzionale dando così all’arbitrio valore fondante. Pertanto, aspetti, quali quelli in argomento, sono, allo stato attuale delle matematiche, ampiamente incompresi proprio perché il metodo infinitesimale non è solo un calcolo e, in alcun modo, può definirsi un semplice metodo d’approssimazione. La presenza di questa valenza metafisica deriva dal fatto, volutamente ignorato anche se risaputo, che Leibnitz, nonostante alcuni evidenti limiti dottrinari del suo pensiero, aveva ricevuto precise influenze dai suoi diretti contatti con alcuni ambienti di carattere esoterico[27]ed esattamente rosacrociano:[28]è da lì, che viene la sua attenzione critica nei confronti dell’intuizionismo psicologico di Cartesio.[29] Secondo Leibnitz la verità può essere colta in sé stessa e non è funzione del soggetto percettore….ma anche questo discorso ci porterebbe troppo lontano.    

Prendiamo dunque le nostre quantità infinitesimali: esse saranno sempre più piccole ma mai davvero nulle perché se diventassero eguali a zero, pel concetto stesso di quantità, cesserebbero d’essere tali perdendo anche la caratteristica di variabili e questo, oltre a contraddire il principio di continuità, fa sì che una variabile, sempre, differisca dal suo limite. Tutto questo detto, niente però impedirà che, e nel calcolo, e in qualsivoglia altra situazione il limite possa essere raggiunto ma non era certo questo quello che volevamo negare quanto piuttosto che, in alcun modo, il passaggio al limite possa essere concepito come la conclusione di una variazione continua: il risultato non è pertanto raggiungibile per gradi, analiticamente, ma d’improvviso.

E qui subentra l’altra accezione aristotelica della sýnechéia da intendersi quale contiguità; del resto, per “definire”, “limitare” una qualsivoglia condizione è implicito che ci se ne debba trovare “al di fuori” ma, parimenti, c’è continuità tra gli insiemi i cui limiti si “toccano” e dal cui “contatto” scaturisce una qualche unità,[30]che sarà poi quella di un insieme superiore nel quale essi tutti rientreranno. È come se, in due modalità d’esistenza sovrapposte, ciò che nell’inferiore è presente quale semplice tendenza, trovasse la sua piena realizzazione nel transfert alla modalità superiore. Un altro modo insomma d’intendere il passaggio dalla potenza (gr. dýnamis) all’atto (gr. éntelécheia).[31] E la corretta intuizione della relazione esistente tra potenza ed atto è alla base della comprensione quindi anche del concetto stesso di movimento.[32]

Il pensiero logico-matematico contemporaneo ha abbandonato la cristallina chiarezza di queste concettualizzazioni, fatto salvo Peirce,[33]il quale, in maniera esplicita, nella sua contestatazione alla definizione di continuo, proposta da Cantor,[34]espressamente le richiama. In effetti, da parte di quest’ultimo, la formulazione del concetto di continuum è paradossale poiché lo vuole far scaturire dall’immagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di punti o di posizioni e, nel caso si prendesse in considerazione la continuità temporale, ovviamente, da quella di un insieme d’istanti (cfr. supra a proposito di Cartesio).

Nel calcolo, con semplici regole pratiche, la discontinuità si verifica al momento del risultato, quand’avviene il passaggio dalle quantità variabili a quelle fisse: è, come abbiamo visto, proprio tale brusco evento a rendere palese che siamo alla presenza di un cambiamento di modalità. Ma la percezione del transfert può essere resa anche con un altro esempio: in una prova di materiali – diciamo, sottoposti alle sollecitazioni di tensione - la rottura non è, infatti, in alcun modo assimilabile alla tensione stessa, che sarà evidenziata dalla semplice deformazione dell’oggetto: lo status che ne risulterà sarà allora totalmente “altro”. Ecco, dunque, di nuovo, un istantaneo passaggio di modalità. La condizione propria, nell’ambito del sensibile, alle quantità variabili è quindi perfettamente assimilabile a quella del “divenire” - identico alla Manifestazione universale - rispetto al Principio. Nello specifico della modalità sensibile, avviene allora che il suo principio immediato sia in altra modalità e quest’ultima sarà, appunto, quella che gli scolastici chiamavano materia subtilis e della quale né Cartesio, né i suoi amici Gesuiti sapevano più bene cosa fare e cosa pensare. È pertanto evidente come ogni modalità trovi la sua ragion sufficiente nella “successiva” ed essendo questi stati, logicamente, in quantità indefinita, l’insieme di essi sarà il predetto “divenire” il cui rapporto complessivo col Principio è quello già illustrato.

Da tutto ciò, consegue che, con la fine dei tempi, questo presente mondo terrestre si troverà proiettato nel paese-del-non-dove ovvero in uno dei Keshvar,[35]il cui settuplice insieme configura la totalità dell’imago Terræ – ancorché con nomenclatura e simbolismi differenti - nella geografia sacra di molte tradizioni. Nei termini di una rappresentazione geometrica, la pregnanza simbolica dell’insieme cambia secondo come questi “continenti” siano rappresentati: se la loro disposizione è su una linea ne verrà esaltata la valenza temporale, se invece si trovano su una superficie, sarà la simultaneità ontologica ad avere la prevalenza. Va da sé, che il tempo rettilineo, dominante le moderne concezioni occidentali, è sempre il meno adatto a fornire un supporto metafisico efficace. In effetti, la rappresentazione più “fedele” della loro “collocazione” può essere resa dalla croce a tre dimensioni.[36] Oltre a non inficiare la simultaneità ontologica, c’è congruenza tra i sette Keshvar ed i sette parametri di essa: le sei direzioni[37]dello spazio, più il centro.

L’accenno al tempo rettilineo oggi dominante, impone però alcune precisazioni: tale concezione sembra, in qualche modo, messa in crisi dalle teorie relativistiche nelle quali si tratta, appunto, proprio di un “complesso spazio-temporale”, il che – è indubbio – può apparire, formalmente, vicino a ciò che è argomento di queste pagine. La prossimità è però illusoria perché, nelle equazioni del movimento, al tempo è dato un ruolo dimensionale con il suo aggiungersi alle tre coordinate pertinenti le tre dimensioni dello spazio (x, y, z e t) e ciò corrisponde, indubbiamente, ad una rappresentazione geometrica non altrimenti definibile che rettilinea. Ma, a voler essere precisi, c’è ancora un aspetto assai singolare dell’intera questione; a svolgere il ruolo di quarto parametro non è semplicemente t ma, in certe notazioni, quello che, in matematica, è chiamato un numero immaginario: tÖ-1. Nonostante che tale dizione sia frutto di pura convenzionalità è davvero curioso che, per il transfert al mundus imaginalis, il tempo debba diventare “immaginario” o, in altri termini, debba cessare d’esistere come successione sicché <<la trasmutation du temps en espace n’est proprement réalisable qu’à la “fin du monde”.>>[38]

A livello individuale, questo transito è segnato per i più dalla morte; ben più arduo e raro il caso di chi, come Dante, <<i vivi piedi così sicuro per lo inferno freghi>>.[39] È però questa una possibilità aperta soltanto a coloro la cui iniziazione (gr. mýēsis o teletē, lt. initium) non sia stata confinata alla mera virtualità ma sia essa, invece, divenuta il motore di un atteggiamento pienamente attivo ossia abbia rappresentato l’accendersi nell’individuo di un vero e proprio processo di realizzazione spirituale, cosicché, tale passaggio al limite abbia infine comportato il possesso dell’integralità dello stato umano in tutte le sue valenze sottili o psichiche che dir si voglia.

Ma l’antico mÛsthV  non vedeva in questa possibilità altro che un primo risultato ovvero il conseguimento del fine dei piccoli misteri. Un risultato, diremmo così conservativo: esso è l’alternativa a quella seconda morte,[40]nella quale sta il senso vero dell’inferno ed alla quale, in termini cristiani, si sfugge - appunto - soltanto con la salvezza.  Ma il fine ultimo dell’uomo è quello di ricongiungersi al Principio ed allora il percorso non potrà che essere inverso a quello cosmogonico. In tal modo, soltanto chi vedrà nello stesso Paradiso una prigione potrà giungere al compimento dei grandi misteri ed ottenere la Liberazione e l’Unione.[41] 


NOTE

[1] La fondamentale radice indoeuropea è biconsonantica. La triconsonanantica è un più tardo sviluppo scaturito da un gioco di anfissi.

[2] In entrambi questi casi il pref. s- ha valore intensivo.

[3] Sir Monier Monier-Williams, The Sanskrit-English Dictionary, Delhi, 1995.

[4] L’interesse, dell’uso di questa parola per indicare la materia primigenia, risiede nel fatto che essa (ýlē) sta per legno e pertanto è significativa di una fase arcaica della civiltà ossia di quando, per un’ancor minore solidificazione del mondo, il simbolismo costruttivo vedeva il Grande Architetto dell’Universo (il massonico G\A\D\U\) operare come carpentiere (skr. takşa, gr. téktōn) piuttosto che come muratore. Detto G\A\D\U\ è il Grande Ingegnere di Sant’Agostino, dal quale, egli afferma, ha origine ogni umano ingenium. 

[5] Phys.  IV. 4. 212a 20. Nella lingua cinese, spazio si dice kôngjiân, dove kông è vuoto ma anche cielo e jiân è in mezzo; il che ben rende l’immagine di un contenitore, rafforzata quest’ultima dalla stessa grafica dell’ideogramma jiân.

[6] 52b; in 51a, si precisa inoltre come la ýlē sia tò metalēptikón, ovvero suscettibile di partecipare (sottint. alla forma).

[7] Cfr. Aristotele, Phys. IV. 8. 214b 11. Il vuoto e, come ad esempio, il silenzio fanno entrambi parte, nella loro ultima natura, delle possibilità del Non-Manifestato.

[8] Con phýsis anche gli antichi intendevano la scienza della natura e, parimenti, quest’ultima coincideva col Cosmo ma la somiglianza con la terminologia attuale non deve trarre in inganno: il problema è che il loro Cosmo non collimava per niente con le teorie di adesso, soprattutto perché il mondo sensibile si limitava ad esserne soltanto un’infinitesima parte. Questo ci fa capire come una lettura degli autori pre-moderni, effettuata senza alcuni riferimenti concettuali possa essere molto fuorviante.

[9] Kósmos  exprime originellement la notion d’ordre, de mise en ordre (P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue greque, Klincksieck, 1990). L’etimo è incerto; forse in kósm [-os], si può ritrovare il pref. xýn-, insieme (cfr. lat. simul), che proviene dal mic. kusu, insieme, nello stesso tempo ed ipotizzare un *kosum[os], ciò che è messo insieme (sottint. ordinatamente e, aggiungerei, istantaneamente).

[10] Cfr. in Gen. 1.2, the status of the primæval earth: ebr. thohu wabohu, dove bohu è emptiness: Hebrew & English Lexicon of Old Testament, Oxford U.P. Qui, vuoto sta a ribadire il concetto d’informe (thohu, formlessness) nel senso di vuoto di forme: il mero vuoto non può, infatti, essere informe ma solo vuoto. A riprova di questa “pienezza”, in skr. âkâśa è sia a free or open space, sia the ether ovvero quel quinto e principiale elemento da quale gli altri quattro sorgono e che permea di sé tutto il Cosmo: la sua scomparsa dalla fisica contemporanea è stata un ulteriore segno del distacco di questa dalla visione tradizionale. Cháos è lett. l’abisso, il vuoto; dallaÖ chan e dalla quale chános, bocca, chánēs, aperto, cfr. il td. der Gaumen, palato.L’etimo è in un i.e. *ghen- avente un generico senso di spalancare, aprire.    

[11] Gv. 1.1 e ss; Gen. 1.1-5.

[12] Gen. 1.3.

[13] Per il mondo classico, sono note - testimoniate dalla scala che porta il suo nome - le conoscenze acustiche di Pitagora. Parimenti noto è che, secondo espresse affermazioni d’Aristotele, fosse l’urto dei corpi sonori con l’aria a provocarne la conseguente percezione auditiva mentre la propagazione ondulatoria del suono appare tra le nozioni di fisica possedute da Vitruvio, il quale ne paragonava la diffusione a quella dei cerchi in uno specchio d’acqua colpito da un qualche oggetto.

[14] Gv. 1.1

[15] In ar. esso è barakt, lett. benedizione, da cfr. con l’ebr. barakah, significativamente prossimo a baraq, fulmine. Curiose le altre conseguenze linguistiche: tale quid è, di norma, ricevuto in ginocchio e, non a caso, sempre in ebr. barake è inginocchiarsi mentre barah è scegliere e, in effetti, solo un prescelto può far parte di un gruppo esoterico. Da ciò, appare evidente, come, in terra d’Italia, l’antico uso muratorio (in Massoneria la lingua sacra di rif. è l’ebr.) di definire baracca la Loggia di cantiere, fosse connesso con questa basilare destinazione sacrale ed altrettanto evidente si rivela il perché, per gli estranei al mestiere ossia per coloro che ne percepivano soltanto la destinazione pratica, essa non sia poi stata altro che una baracca, entrando così nell’uso comune. 

[16] Lo stesso processo in atto in á-topon è riscontrabile nella più nota utopia, dove, la negazione avviene apponendo allo stesso tema tóp[-os] lavv. -, non.

[17] L’espressione è stata utilizzata per primo da Sohrawardî. Conosciuto in Iran quale Shaykh al-Ishrâq (maestro aurorale) morì, nel 587/1191, ad Aleppo, all’età di trentasei anni, vittima della bigotta intolleranza exoterica. Egli, nel resuscitare la saggezza della spiritualità zoroastriana, espresse un’esperienza estatica di Dio <<Luce delle Luci>> e, fedele al platonismo, prese a fondamento dei suoi insegnamenti una metafisica impostata su una prospettiva gnostica nella quale le Luci Angeliche s’oppongono alle Tenebre.

[18] H. Corbin, Corps spirituel et Terre céleste, Buchet/Chastel, 1979. Il senso dell’espressione non ha niente a che vedere con la fantasia nell’accezione riduttiva e semplicistica quale oggi la s’intende nel linguaggio, non solo corrente m’anche in quello scientificamente motivato: detto mondo non è quindi un epifenomeno degli stati d’onirismo più o meno lucido di un singolo o di una collettività ma è una realtà oggettiva presente nella molteplicità dei gradi di realtà costituenti la possibilità universale. L’ontologia di questo mondo intermediario permette di superare l’ossessione incarnazionista di gran parte della teologia contemporanea, la quale, con irremovibili storicizzazioni è stata, a sua volta, una tra le cause scatenanti del materialismo e del razionalismo.

[19] Qui s’intende fare riferimento al termine di quello che la dottrina indù dei cicli chiama Manvantara o età di un’umanità.

[20] <<il punto a cui tutti li tempi sono presenti>> (Par. XVII. 18).

[21] Aristotele, Phys. VI. 2. 232b 24: è, di per sé, questa definizione, un’esclusione della possibilità di qualsivoglia atomismo; cfr. ibidem, 231a 24.

[22] Va da sé che, su questo nostro livello di realtà, l’esistenza del movimento sia indiscutibile; così, come vale per qualsivoglia mutamento, è altrettanto intuibile che esso non abbia in se stesso la propria ragion sufficiente ma la trovi soltanto in quel <<Motore Immobile>> (<<tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa>>, Aristotele in Phys. VII. 1. 256a 14), che regge l’intera Manifestazione. Parimenti, dallo stesso superiore punto di vista, la molteplicità si riduce all’Unità da cui procede come, appunto, può leggersi nel simbolismo matematico sotteso alla formazione della serie dei numeri.

[23] In Logic, ch. II. trad. it. Einaudi, Torino, 1973, p. 59. Peccato che – com’è frequente nei pensatori moderni – ad una corretta affermazione metafisica: l’impossibilità che il maggiore scaturisca dal minore, s’affianchi - senza mostra alcuna di una percezione dell’intima contraddittorietà - la pacifica accettazione evoluzionistica (il trasformismo darwinista) con tutto il corollario migliorista di una rassicurante continuità dell’evoluzione, quale immancabile portatrice di sviluppo e di progresso per tutta l’umanità.

[24] S’intende, ovviamente, in un senso filosofico e meglio metafisico, non sul piano delle procedure di calcolo il cui scopo è soltanto quello d’ottenere un risultato. Vd. infra.

[25] Rudolph Carnap, Foundations of Logic and Mathematic, trad. it. Paravia, Torino, 1956.

[26] Ad esse, si può aggiungere il greco che, dalle relazioni lettere/numeri, sviluppò le pratiche della ÆsoyhjÆa.

[27] Analoghi interessi in Newton, i cui scritti alchemici superano in quantità quelli scientifici.

[28] Un rilevante preannuncio del metodo infinitesimale presso gli antichi è testimoniato dal ritrovamento, avvenuto nel 1906, di una lettera di Archimede a Eratostene, dove s’espone un metodo euristico fondato su un principio analogo a quello degli indivisibili (zArchimėdous perì tōn mēchanikōn teoremá tōn pròs zEratostéōēn éphodos). 

[29] In Principia Philosophiæ (I. 58) afferma che il numero <<…non esiste fuori del nostro pensiero…>> affermazione che può essere vera solo se chi la fa confonde, appunto, il numero con la cifra. Non pago Cartesio poi prosegue: <<… come non esistono tutte le altre idee generali che gli Scolastici comprendono sotto il nome di universali>> ancora una volta dimostrando la sua irrimediabile cecità metafisica. È soltanto avendo ben presente la differenza concettuale tra numero e cifra che si può allora comprendere l’affermazione aristotelica (Metaph. XIV. 3. 1090a 21) che <<le cose sono esse stesse numeri>> ovvero <<composte di numeri come di loro elementi>>.

[30] Aristotele, Metaph. XI. 12. 1069a 5 e ss.

[31] È nel senso di questo procedere gerarchico delle modalità (grossolana e sottile) dell’esistenza che Aristotele può definire l’anima <<quale éntelécheia di un corpo organico>> (De An. II. 1. 1050a 23), mettendo così bene in evidenza la direzione dell’iter nella prospettiva del “riassorbimento” del Manifestato nel suo Principio. Tutto quest’ordine di considerazioni trova ampio sviluppo nello studio di R. Guénon, Les principes du calcul infinitésimal, Gallimard, 1946. D’analoga impostazione è un’indagine sul simbolismo matematico degli stati molteplici dell’essere, affrontata da Enrico Barazzetti, in L’espace symbolique, Archè, 1997.

[32] Formulata da Aristotele - in Phys. III. 1. 201a 10 - come << l’éntelécheia di ciò che è in potenza>>.

[33] in Collected Papers; Chance, Love and Logic, II. 3 (trad. it. Taylor, Torino, 1956): Charles Sanders Peirce (1839 / 1914) fu spirito inquieto ed anticonformista che, nonostante una precoce genialità, per gli altalenanti rapporti col mondo accademico, fu, da quest’ultimo, sempre tenuto ai margini. Nel 1935, assai dopo la sua morte, i molti inediti furono parzialmente raccolti e pubblicati. Si precisa però come – sebbene tali studi siano ricchi di spunti d’indubbio interesse – egli fosse remoto da una prospettiva che potremmo chiamare tradizionale, basti considerare che la sua visione gnoseologica, da lui definita fallibilismo, comporta una metafisica ipotetica fondata sull’ineliminabilità del caso. Nella genesi di alcuni aspetti del pensiero contemporaneo, il suo ruolo è importante per aver fornito le basi filosofiche sulle quali la semeiotica ha potuto svilupparsi quale disciplina autonoma.

[34] Georg Cantor, in Mathematischen  Annalen : <<Date su una retta r due classi C e C’ di punti tali che:

1°, ogni punto di C sia a sinistra di ogni punto di C’;

2°, preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento minore di y di cui un estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C’;

esiste allora sulla retta r un punto di separazione delle due classi>>.Trad. it. in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET, Torino, 1971.

[35] Per il ruolo di questi aspetti non sensibili della Terra nell’economia sacrale delle dottrine iraniche (il rif. prevalente è al Mazdeismo), vd. H. Corbin, op. cit. supra n. 18.

[36] Nella raffigurazione piana (cfr. Corbin, op. cit.), sei di essi sono collocati, secondo la rosa dei venti, in una disposizione anulare mentre il settimo ne costituisce il cerchio interno. Coassiale però a quest’ultimo, c’è un nucleo ulteriore; tale medius orbis prende il nome di Airyanem Vaejah o Culla degli Ari. Nella parte anulare di questa geographia imaginalis, all’Occidente, si trova il Keshvar (med pers) denominato Arzah (med pers., in avest. Ar∂zaj): ciò è notevole, in quanto in ebr. arez, è la terra e gli Ebrei, anche nel nome, ´ibry, esprimono un’origine “occidentale”. Infatti, alla Ö ´ibr è connesso il senso di qualcosa <<…qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘ibry, [ebreo] et les Arabes, ‘arab [arabo] par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu’on prononce  ´ibry, soit qu’on prononce ‘arab, l’un ou l’outre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou-delà, ou à l’extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d’une contrée>>. (in Fabre d’Olivet; La Langue Hébraïque Restituée, L’Age d’Homme, 1985). Per metafora tratta dal senso d’oscurità connesso al tramonto; stessa origine può essere attribuita a §reboV, cfr. anche l’accad. erebu, tramonto.

[37] Non si deve dimenticare come, sia le direzioni, sia la forma, siano tra le caratteristiche qualitative dello spazio mentre uno degli scopi del calcolo differenziale sta proprio nel determinare le direzioni delle tangenti in ogni punto di una curva e come, appunto, l’insieme di esse permetta di definirne la forma.

[38] R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, 1945, Ch. XXIII.

[39] Inf. XVI. 33.

[40] Cfr. Inf. I. 115-117: <<Ove udirai le disperate strida, Vedrai li antichi spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida>>

[41] Nell’Induismo esse sono, rispettivamente: Moksha (o Mukti) e Yoga.