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La Cina: temerla o amarla? (Fonte) di Giulietto Chiesa / Torna a Indice Cina

Parliamo di Cina, questa volta. Fino a cinque o sei anni fa era ai margini del mondo. Certo, grande, certo antica. Ma di lei, della Cina, allora si accorgevano soltanto i cittadini di Khabarovsk, o dell’Estremo Oriente russo. Semplicemente perché erano e sono invasi dai cinesi. Invasi come da una immensa ondata di popolo che attraversa pacificamente le frontiere e non c’è modo di fermarla. Anche perché, al momento, è un’ondata benefica, che porta denaro, sviluppo, benessere...
Anche i vicini del sud se n’erano accorti, e non poteva essere altrimenti. Thailandia, Malaysia, Filippine, Borneo, Indonesia. Meno il Vietnam, che ha qualche ragione storica per essere prudente, e che ha lesinato storicamente gli accessi. Ma tutti gli altri hanno da decenni floride comunità di residenti cinesi. E i commercianti cinesi erano già dappertutto anche trent’anni orsono. Figuriamoci adesso, che il decollo cinese è avvenuto e sta già portando il paese verso altezze che parevano inimmaginabili ancora dieci anni orsono.

La Cina sta crescendo a ritmi che sono sette volte superiori a quelli del mondo industrializzato. E non è solo commercio di cinfrusaglie, se è vero, com’è vero, che la Cina si sta comprando i personal computer (la produzione intendo dire) della IBM, la più famosa costruttrice di Business Machine del pianeta, almeno fino all’arrivo di Bill Gates e della sua Microsoft.

Il fatto interessante è che – ora che la Cina è diventata molto vicina – essa ispira al tempo stesso ammirazione e paura, stupore e incertezza, perfino angoscia. Da sola, con il suo miliardo e 250 milioni di persone, ha tanti lavoratori quanto tutto il mondo industrializzato, cosiddetto occidentale. E, di questi, decine di milioni sono operai senza specializzazione, ex contadini, che accettano con entusiasmo un salario di meno di 100 dollari al mese.
Producono di tutto e a prezzi così competitivi che in America e in Europa l’interrogativo più impellente è divenuto questo: come possiamo crescere in queste condizioni?

Chiedi alla grande catena distributrice Wal-Mart Stores, degli Stati Uniti: compra di tutto in Cina. Ed è solo un esempio, perché gli Stati Uniti importano dalla Cina cinque volte quello che esportano. E i produttori americani ed europei se ne stanno a guardare, perché non possono fare concorrenza a merci che, a parità di qualità (perché i cinesi sono anche bravi a fare le cose), costano tre o quattro volte di meno.

Da qui viene l’angoscia. E anche da un’altra faccenda. Gli osservatori esterni pronosticavano da tempo un rallentamento della crescita cinese, che oggi è superiore all’8% del prodotto interno lordo. Si è scritto e detto centinaia di volte che un tale sviluppo avrebbe provocato la crescita di una classe media molto esigente in fatto di libertà d’impresa. Questo, a sua volta, avrebbe prodotto una richiesta di riforme politiche, di pluralismo dei partiti. Insomma la fine del monopolio politico del Partito Comunista Cinese, insieme a problemi sociali a lungo sopiti ma inevitabilmente sorgenti sull’agenda del giorno.

Ma di tutto questo si è sentito soltanto parlare, senza che accadesse nulla. La sua stabilità politica appare assai più forte di quanto l’occidente avesse supposto, forse perché applicava al popolo cinese gli stessi parametri che valgono per la Francia, o la Germania, mentre non è affatto così. Abbiamo forse tutti sottovalutato, mentre misuravamo i livelli dei diritti umani in Cina, che l’enorme balzo di prosperità che quel paese sta conoscendo, pur con tutti i suoi limiti e le sue disuguaglianze e contraddizioni, si è accompagnato al più lungo periodo di stabilità politica attraversato da quel paese: tre decenni di pace senza interruzione. Nella plurimillenaria storia cinese bisogna andare molto indietro nel tempo per trovare qualcosa di simile.

La Cina insomma sembra sfidare molti assiomi del capitalismo neoliberista. Per esempio quello secondo cui solo la libertà senza limiti e la deregolamentazione sono fattori di sviluppo. Invece questi nuovi arrivati, direttamente dal socialismo al capitalismo, senza fermate intermedie, stanno dimostrando che è possibile realizzare uno sviluppo prolungato ad alti tassi di crescita anche con un sistema finanziario molto strettamente controllato, che canalizza un risparmio assai alto verso progetti decisi politicamente da un’accorta burocrazia centrale.
La differenza con regimi autoritari di diversa natura e provenienza politica è impressionante. Anche in Cina la corruzione ha raggiunto livelli alti, come tutto il resto, ma non ha paralizzato la crescita, com’è accaduto, per esempio, in Russia.

Il problema è che, se per caso la Cina dovesse incontrare oggi una crisi politica, e questa dovesse avere ripercussioni sull’economia e la finanza cinesi, il resto del mondo ne risulterebbe sconvolto. Perché non avrebbe gli strumenti per intervenire, né contro né a sostegno. Insomma la Cina fa paura perché cresce troppo, ma anche perché, se smettesse di crescere, non potremmo fare fronte al vuoto che lascerebbe dietro di sé.