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I  NUMERI  SACRI  E IL  LORO  SIMBOLISMO (TERZA PARTE) (Fonte)
Iakov Levi e Luigi Previdi

IL  TRE  E  IL  SETTE

Al di fuori dell’Europa troviamo il tre in India.
La Trimurti, rappresentazione complessiva di Brahma, Shiva e Vishnu si può paragonare alla trinità cristiana.
La concezione buddista della conoscenza come triplice corpo è composta di dharrmakaya (vero essere), nirmanakaya (formazione storica, Gautama Buddha) e sambhogakaya (il benefico effetto della comunità)  .
Da qui anche l’immagine simbolica dei «tre gioielli» (triratna): legge, Buddha e comunità .
Sembra che il tre, come simbolo fallico, sia una produzione della psiche indoeuropea.
Forse è emigrato dall’India all’Occidente insieme alle migrazioni che dal subcontinente indiano hanno portato i progenitori dei greco-romani nei loro territori d’insediamento finali, come insieme a loro è emigrato il sanscrito, padre delle lingue occidentali.
Comunque, almeno per quanto possiamo risalire a ritroso, pare che il tre, come numero sacro e simbolo fallico, sia delimitato ai popoli indoeuropei.
Il sette, pur non essendo esclusivo dei popoli semiti, pare molto raro in Europa prima del Cristianesimo, e solo dopo il crollo del mondo antico assume una certa importanza.
Nel mito greco, questo numero appare raramente: tranne che nei miti orfici e nella tragedia eschilea è più cospicuo per la sua assenza che per la sua presenza.

La storia romana comincia con i sette re di Roma e i sette colli su cui la città fu fondata, ma questo è un episodio isolato, che cercheremo di trattare in queste pagine, che non solo non è peculiare della tradizione greco-romana, bensì è persino antitetico, ovvero è una rappresentazione che va controcorrente.
Nella liturgia greco-romana questo numero è non solo assente, bensì evitato.
Ma una città viene fondata, su sette colli, da elementi senza patria e senza leggi.
I sette re di Roma regneranno su questa città.
I tempi sono l’VIII sec. A.C. Dunque prima che l’Occidente si strutturi definitivamente a polis e a Stato.
I Romani che fondarono la città, che sarebbe diventata in seguito sinonimo di Sovranità e di Stato, erano una banda di sbandati, di emarginati.
La leggenda italica ci racconta come questi gruppi di sbandati e di fuorilegge passarono, da tali, a una struttura che diventerà sinonimo di ordine e di legalità.
Sette re ricordano sette fratelli, il nucleo di un clan, una banda di giovani.
I primi Romani, che si raggrupparono ai margini dei villaggi organizzati politicamente di allora, al di fuori della città di Alba, ricordano i giovani novizi che vengono emarginati al di fuori dell’habitat regolare, per passare i propri riti di passaggio.
Quindi la leggenda di una città fondata su sette colli, da gruppi di giovani sbandati, e governati da sette re, cioè da loro stessi, nella rappresentazione di un numero che, come abbiamo visto, nell’Oriente semitico era chiaramente un simbolo fallico legato ai riti della pubertà, ci ricorda in tutto e per tutto il rito d’iniziazione di una società che sta per superare la propria struttura tribale, per evolversi a Stato.
Anche le prime gesta di questi giovani, dopo aver fondato la propria città, ovvero dopo aver compiuto l’atto eroico associato ai riti iniziatici, sono il ratto delle Sabine, ovvero il rapporto eterosessuale che si sussegue a catena.
Solo dopo saranno considerati adulti e entreranno nella legalità.
Come abbiamo visto sopra, presso alcune tribù selvagge dell’Australia esiste persino la credenza che se l’atto eterosessuale non verrà consumato immediatamente dopo il rito della pubertà, il novizio morirà.
Torniamo per un momento, a questo proposito, al versetto del Vangelo che abbiamo già citato: «Ora c’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo» (Matteo 22,25).
Qui ci viene raccontato di sette fratelli che muoiono, uno dopo l’altro, appena sposati.
Questa non è altro che la descrizione di un rito d’iniziazione mancato. I giovani novizi non sono riusciti a completare in maniera soddisfacente il rito e quindi muoiono al primo rapporto sessuale.
Anche l’espressione: «Ora c’erano tra noi sette fratelli» sembra l’inizio di una storia che suoni ad ammonimento: «Così successe a quei novizi, tra noi, ovvero, parte della tribù, che mancarono di adeguarsi al rito».
Lo stesso concetto, anche se esposto in maniera diversa, ritorna in Luca:

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza (Luca 2,36)

Il periodo di sette anni, che come abbiamo visto rappresenta simbolicamente il lasso di tempo in cui dura il rito iniziatico, si conclude con la morte del marito, invece che con la fecondazione della donna. Infatti ella parla del Bambino che dovrà venire, ma lei di bambini non ne ha (Luca 2,38).
Come la Vergine Maria riceverà in dono un bambino a compensazione del pene maritale mancato, così la profetessa Anna si aspettava lo stesso indennizzo simbolico.

Sia nel caso descritto da Matteo che in quello riportato da Luca o il rapporto eterosessuale non era avvenuto in susseguenza immediata al rito di passaggio, e quindi aveva portato alla morte dei novizi, o era avvenuto senza aver completato gli esorcismi del caso, e diventò quindi sacrilegio, tabù, e il risultato fu lo stesso: la morte.

Contrariamente ai giovani romani, che avevano rapito le Sabine ed erano diventati uomini, i sette fratelli e il marito di Anna, descritti dal Vangelo, morirono senza aver varcato la soglia della virilità.

I sette re di Roma, che gli allievi delle scuole elementari sono obbligati dalla maestra a imparare a memoria e ad enumerare, uno dopo l’altro, sono, quindi, la traccia mnestica di un antico rito iniziatico delle tribù italiche, prima di prendere la strada della civilizzazione.

Freud, citando Frazer, riporta la supposizione che i primi re delle tribù latine fossero stranieri che ricoprivano il ruolo di una divinità e che, in questo ruolo, venissero giustiziati solennemente in una festività definita. In questo contesto ci diventa più chiaro il significato della leggenda che i primi Romani fossero sbandati, emarginati, cioè stranieri alle altre città latine. Il sette condensa qui sia il numero degli iniziati che il loro ruolo come agnelli sacrificali. Sette re. Come i sette agnelli che Abramo mette da parte per il suo patto con Abimelech. Come I sette altari costruiti da Balak per sacrificare sette giovenchi e sette arieti. Come le sette pietre che gli Arabi, descritti da Erodoto, mettono tra di loro a testimonianza e cospargono di sangue (come abbiamo visto le sette pietre rappresentano il dio e il loro spargimento di sangue condensa il sacrificio che viene fatto al dio e del dio stesso. Come i sette agnelli che nella festa delle settimane (Shavùot) vanno sacrificati al Signore. Come i sette figli di Giobbe e le sue settemila pecore, che vengono sacrificate insieme a loro. Come i sette fratelli del libro dei Maccabei.

Nei miti orfici , che contengono le storie condensate degli antichi riti iniziatici delle tribù greche, il sette appare nei sette mesi durante i quali Orfeo deve rimanere in una caverna sotto un’enorme rupe, dopo aver passato sette giorni senza assumere cibo presso il fiume degli Inferi, in una caverna, parallelo del ventre materno, da cui poi rinascerà.
In questo periodo si tenne lontano dalle donne e si recavano da lui i selvaggi abitanti del bosco, satiri e giovani ragazzi. Orfeo li educava all’astinenza dalla carne, cantava loro l’origine delle cose e degli dei, e li iniziava ai misteri che aveva appreso dalla regina degli Inferi durante la sua visita nell’al di là.

Qui il processo iniziatico, con le sue astinenze, la rinascita e le sue istruzioni appare in maniera esplicita.

Eschilo ha ancora lo sguardo rivolto verso le antiche tradizioni come, prima di lui, Omero. In loro le tracce del rito iniziatico continuano ad emergere vitali.

Ed ecco che I Sette contro Tebe ci parla ancora di sette eroi, come i sette re di Roma, e il loro rapporto erotico-aggressivo verso la città di Tebe: condensazione dello strumento fallico apotropaico di questa, come lo saranno i sette nani per Biancaneve, e della pulsione genitale eterosessuale dei sette corni di montone intorno Gerico.

Gli Eroi difendono le sette porte di Tebe, uno per ogni orifizio, e fanno, così, da strumento apotropaico.

La connessione tra la città e l’atto iniziatico diventa ancora più esplicita quando il messaggero riporta al Coro delle donne il risultato della battaglia:

L’esito è buono, in complesso, alle prime sei porte. La settima fu scelta esclusiva del santo principe, patrono del sette, di Apollo: così si concretava - rovina al ceppo di Edipo - il delirio antico di Laio» (I Sette contro Tebe, vv. 797-802)

Eschilo ci dice esplicitamente: «...patrono del sette di Apollo».
E la nascita di Apollo veniva celebrata il sette di ogni mese (Callimachus, Hymnus in Dianam, 22.).

Come il tre era stato il numero di Dioniso, l'agnello ucciso, così il sette è il numero associato ad Apollo e al suo volto minaccioso.

Il dio che, come abbiamo visto sopra, era il dio iniziatico, aveva come simbolo fallico il sette, esattamente come Jahvè.

Ed entrambi sono collegati al Diluvio Universale. L’equazione diventa chiara: Apollo- arco e frecce - sette = Jahvè - la sua ira - sette.

Le antiche tribù ebraiche e quelle greche venivano iniziate entrambe sotto l’ombra minacciosa di questo numero.

Gli Israeliti avevano passato il Giordano, ovvero erano rinati simbolicamente emergendo dalle acque, erano stati circoncisi, e solo dopo poterono prendere possesso della città. Il rito era stato completato con successo e Jahvè aveva accordato loro la sua paterna benedizione.

Nella tragedia eschilea Tebe, a differenza di Gerico, non cade. A differenza di Roma, non viene posseduta dal gruppo dei sette re, e i sette cavalieri che la difendono rimarranno il suo strumento apotropaico, come la spada del Cherubino che difende l’entrata al Giardino dell’Eden.

Abbiamo qui la condensazione, sia della pulsione genitale che conduce alla penetrazione, sia del controinvestimento pulsionale inteso a frustrarla.

Le sue porte, gli orifizi, vengono difesi. Eteocle, il difensore della settima porta, l’orifizio principale attraverso il quale sarebbe dovuta avvenire la penetrazione eterosessuale, muore. Ma  muore anche Polinice, l’attaccante.

«Così si concretava - rovina al ceppo di Edipo - il delirio antico di Laio».

Edipo, il parricida, è colui che non aveva superato il rito iniziatico, attraverso il quale la generazione dei figli cementa la propria identificazione e il proprio patto di sangue con la generazione dei padri, e, infatti, invece di rimuovere le proprie pulsioni parricide, le aveva concretizzate in un sacrilego acting out.

Senza gli esorcismi magici dell’atto iniziatico completato, e senza la rimozione che ne consegue, il tentativo di penetrare la città si conclude con un disastro.

Come per i sette fratelli, descritti nel Vangelo di Matteo, e come per il marito di Anna, figlia di Fanuele, descritto da Luca.

Vediamo come, sia la tragedia Eschilea, sia il Vangelo ci presentino delle istantanee, scattate in un angolo dimenticato del bosco. Un po’ scostato dall’epicentro della cerimonia principale,  e dove si sta consumando la tragedia del rito iniziatico mancato.

E infatti di tragedia si sta parlando, ovvero della pulsione uscita di controllo, non esorcizzata e non rimossa.

Questo è l’ammonimento alle generazioni future.

Invece della benedizione della generazione dei padri sulla generazione dei figli: «... rovina al ceppo di Edipo - il delirio antico di Laio». La malledizione del Padre.

Dopo Eschilo avviene la rottura definitiva dalla forma mentis arcaica, e Sofocle e il suo Edipo ci parleranno non più di sette ma di tre: le tre età dell’uomo usate per decodificare l’enigma e prendere la città.

Non è un caso che in entrambi le tragedie si parli della città di Tebe.

Nella psiche greca, dopo Omero, questa era diventata sinonimo di città-corpo della madre e della donna.

La società greco-romana, una volta superati i riti tribali e imboccata la strada della fedeltà alla polis e allo stato, al posto di quella al clan e al padre tribale, non avrà più bisogno del numero sette.

Dopo cinque secoli, con la crisi del mondo antico, che troverà la sua espressione nel cristianesimo, riemergerà nuovamente, come risultato della regressione esistenziale della società occidentale e il suo venir risucchiata all’indietro, verso gli arcaici riti tribali rimossi.

Questo numero continuerà a riaffiorare anche dove la fedeltà al clan non era mai stata superata e, come prodotto della quale, continui a riemergere la traccia e la nostalgia dei riti tribali abbandonati.

Le tribù germaniche e nordiche continueranno a raccontare di sette nani, di sette principi, di sette fratelli, di sette corvi, di sette agnelli, di sette spose per sette fratelli.

Tutto il Medioevo barbaro-cristiano continuerà a rispolverare dai suoi archivi mnestici il numero sette.

Sotto l’influenza del mondo apollineo della cultura greco-romana, queste tribù europee adotteranno anche il numero tre, simbolo fallico dell’Occidente, adottando le tre streghe di Macbeth e le tre inviate della Regina della Notte del mito nordico del Flauto Magico, parallele ai mostri greci arcaici e simbolo di un mondo preolimpico, le tre figlie di re Lear e Cenerentola e le sue due sorelle, parallele alla triade olimpica e, alla fine, sebbene, forse, a malincuore, la Santa Trinità.
Ma il sette continua a riaffiorare, proprio dove trova più espressione il rusticus, il popolare, in contrasto all’aulico, l’ufficiale.
In Shakespeare torna di più il simbolismo del numero tre, ma pur appartenendo alla sfera culturale occidentale, non è esente da tracce mnestiche di un’antica fedeltà di sangue, che si riflettono nel numero sette: gli Inglesi, dopotutto, discendono dalle tribù sassoni e normanne .
Se l’Edipo apollineo parlava di tre età dell’uomo, ecco Shakespeare che parla di sette età dell’uomo (in As you like it, II, vii, 140-166).
Come il periodo di preparazione  del rito iniziatico si conclude con la circoncisione  che, come ci ha insegnato Freud, è un sostituto simbolico della castrazione , così le sette età dell’uomo di Shakespeare si concludono con la perdita dei denti e degli occhi (...Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything), ugualmente simbolo di evirazione.
Forse la sua grandezza deriva proprio dal fatto che ha saputo arruolare arcaiche tracce mnestiche tribali, con la loro carica energetica, alla causa della cultura occidentale.
Ed ecco che nella sua opera tre donne, di cui una sola obbedisce al marito, (La Bisbetica Domata), tre streghe (Macbeth), tre scrigni (il Mercante di Venezia) e tre sorelle (Re Lear) si fondono con le sette età dell’uomo (Così è, se vi pare), senza nessuna contraddizione.
Pare proprio che i Germani, i Danesi e gli Scandinavi, si siano trincerati nella loro struttura psichica tribale molto più degli Inglesi, che hanno saputo fare una sintesi più armonizzata tra tribù e polis, tra  Stato e fedeltà di sangue, tra cultura occidentale e arcaiche tracce mnestiche di fedeltà al clan.
Per Tedeschi e Scandinavi il sette risuona ad alte note, un richiamo della giungla che emerge prepotente in tutte le loro fiabe e le loro saghe.
I nani di Biancaneve sono sette, sette volte nano, piccolo, simbolo fallico del pene, moltiplicato per sette, come sette erano i corni di montone che fecero cadere le mura di Gerico.
Sette simboli fallici intorno a Biancaneve, come sette simboli fallici intorno a Gerico, per farla cadere e penetrarla, come sette i giorni della sua intoccabilità, del suo tabù, che può venire esorcizzato solo dall’ottavo, con la circoncisione.
La rappresentazione scenica dei sette nani, intorno a Biancaneve, corrisponde all’istantanea dei sette corni di montone intorno a Gerico che, come la vergine Biancaneve, «era saldamente sbarrata di fronte agli Israeliti, nessuno usciva e nessuno entrava» (Giosuè 6,1).
Sette re di Roma, la città fondata su sette colli, ovvero posseduta, dal numero magico degli iniziati e del loro simbolo fallico.
Sette re. Sette eroi, Sette novizi. Sette nani. Sette Samurai (I Magnifici Sette) e "Sette spose per sette Fratelli".
Sotto il simbolismo magico di questo numero, il rito iniziatico si sussegue a catena, una scena dopo l’altra, dall’atto eroico a quello eterosessuale.
Dio creò il mondo in sei giorni, il settimo si riposò, e solo dopo crea la donna. Solo dopo, al termine del rito iniziatico, appare la donna, come premio dell’impresa eroica e della sua fatica.
Nella storia di Giuseppe, che decodifica il sogno del Faraone, i contenuti sono gli stessi. Sette sono le vacche grasse e sette le vacche magre, sette le spighe piene e sette le spighe vuote. Attraverso il simbolismo del sette Giuseppe penetra il significato del sogno e così salva se stesso e l’Egitto e avrà l’Egitto  stesso in premio, come Edipo, che decodifica l’enigma della Sfinge e avrà Tebe e la sua regina.
Al posto dell’atto eroico, che nello strato più arcaico della leggenda di Edipo era rappresentato dall’uccisione del mostro , sia per Edipo che per Giuseppe si sostituisce la decodificazione dell’enigma, del mistero. La decodificazione dell’enigma condensa sia l’atto eroico che un aspetto dell’atto sessuale stesso, poiché decifrare è penetrare. E qui ci ricolleghiamo al sapere biblico, alla conoscenza e la sua connotazione genitale (p.6). Come già aveva intuito Nietzsche il desiderio di avvicinarsi alla verità è associato al bisogno di accostarsi alla donna e i sapienti, i nuovi iniziati, avranno lei in premio .
La verità, per gli Egiziani, era rappresentata come una dea, Maat. Per i Greci la saggezza era personificata dalla vergine Atena, e in greco saggezza è “Sophia”. In ebraico Emet (Verità), Chochmà (Saggezza), Da't (Conoscenza), Binà (Sapienza), Hidà (Enigma-indovinello), sono tutti concetti che vengono espressi al femminile e così anche nella maggior parte delle lingue indoeuropee.
Trovare la chiave dell’enigma corrisponde ad aprire e quindi Giuseppe, usando il numero sette, compie sia l’atto eroico che quello eterosessuale. La chiave per l’enigma diventa anche la chiave per il possesso dell’Egitto.
Nella Bibbia, come avverrà molto più tardi in Grecia, la saggezza sostituisce la forza  come atto eroico e come simbolo sessuale di penetrazione, in un’unica condensazione. Qui abbiamo esattamente il punto di cucitura, dove questo avvenne.
Il rito iniziatico di Giacobbe fu consumato attraverso la sua lotta con l’angelo e subito dopo gli viene cambiato nome: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele perché hai combattuto con gli uomini e con Dio e hai vinto» (Gn.32,25-30), come si cambia nome agli iniziati, dopo che hanno consumato il rito .
Come nel prodotto onirico lo stesso concetto si ripete più volte nello stesso sogno, e ritroveremo la stessa cosa nel sogno del faraone («Allora Giuseppe disse al faraone: «Il sogno del faraone è uno solo»(Gn.41,25)), anche la Bibbia ci dà due versioni  dell’iniziazione di Giacobbe, ripetendo lo stesso concetto. Prima la fatica iniziatica e il rapporto eterosessuale e dopo la lotta con l’angelo e il cambiamento del nome.
Nella prima versione il numero sette emerge due volte: nel numero degli anni che deve lavorare per Rachele (Gn. 29,18) e nel numero dei giorni del banchetto nuziale (Gn. 29,27-28).
Nella seconda versione, il numero magico ritorna nuovamente due volte: Labano «lo inseguì per sette giorni di cammino e lo raggiunse sulle montagne di Galaad» (Gn.31,23) e, al suo incontro con Esaù: «si prostrò sette volte fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello» (Gn.33,3).
Il contesto iniziatico del numero sette diventa particolarmente chiaro quando si esamina da vicino i sette giorni di cammino che ci vogliono a Labano per raggiungere Giacobbe. La distanza tra Carran, in Mesopotamia, e Galaad, nel nord della Palestina è di centinaia di chilometri e ci sarebbero voluti ben altro che sette giorni di cammino per percorrerli. Quindi questo non è il lasso di tempo reale che ci vuole per percorrere una distanza, bensì un periodo simbolico, come quello che passa da quando inizia il rito iniziatico al momento della circoncisione. E infatti la lotta di Giacobbe con l’angelo e la sua mutilazione simbolica avvengono in immediata susseguenza associativa alla fuga di Giacobbe dallo zio che minacciava di ucciderlo. Come la generazione degli adulti minaccia, in questi riti, i giovani di morte.
Le sette prostrazioni di Giacobbe, subito dopo, di fronte al fratello che voleva ucciderlo sono una ripetizione dello stesso concetto.
In entrambi i casi il sette, prima quello collegato alla fuga da Labano e poi quello delle prostrazioni di Giacobbe davanti a Esaù, si concludono con un patto sancito solennemente, prima con lo zio e poi con il fratello. Come ogni rito della pubertà viene sancito da un patto di sangue con la generazione dei padri e quella dei fratelli  .
Giuseppe, invece di lottare con un angelo, come il padre, risolve l’enigma e il Faraone gli cambia nome e «chiamò Giuseppe «Zafnat-Paneach» e gli diede in moglie Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On». (Gn.41,45).
Il giovane Eroe, con il suo numero sette, penetra il segreto, decodifica l’enigma e ha subito un rapporto eterosessuale. L’Egitto, che gli viene affidato e messo in suo potere, è la sua ripetizione. Come Tebe, che viene data in premio a Edipo è la ripetizione della sua regina. Come Troia, il premio degli Achei, è la ripetizione di Elena. Come Gerico, il premio degli Israeliti, è la ripetizione di Raab, la prostituta sacra che dimora dentro le sue mura (Giosuè 2,1).
Ma anche lo svolgimento del mito apollineo di Edipo, in confronto a quello semita di Giuseppe, ci rivela una differenza.
L’enigma di Edipo era stato:

C’è sulla terra un animale che può avere quattro, due o anche tre gambe ed è sempre chiamato con lo stesso nome. È il solo tra gli esseri viventi che si muovono in terra, in cielo e in mare, che muti natura. Quando egli cammina appoggiato a un maggior numero di piedi, la velocità delle sue estremità è minore».

  E la risposta dell’Eroe era stata: «l’uomo, poiché queste sono le sue tre età. Da infante cammina a quattro gambe, a mezzogiorno cammina sulle sue due gambe, e in vecchiaia si appoggia sul suo bastone».
Le tre età dell’uomo sono la chiave della soluzione dell’enigma.

Il protagonista della storia sofoclea, quando la società greca era strutturata a polis e aveva rimosso qualsiasi ricordo dell’antica fedeltà tribale e di suoi riti iniziatici, risolve l’enigma attraverso il numero tre.

Giuseppe, l’Ebreo, figlio di una tribù di pastori, risolve l’enigma attraverso il numero sette, e questo numero è la chiave alla sua sapienza.

Anche la famosa traduzione della Bibbia dall’ebraico al greco è la traduzione dei «settanta», la Septuaginta, in cui, secondo la leggenda, settanta sapienti vengono racchiusi in settanta stanze separate per tradurre la Bibbia dall’ebraico al greco. Atto eroico collettivo, che viene perpetrato attraverso la sapienza.

DIONISO - APOLLO

Abbiamo visto come il Dioniso dei miti orfici, sbranato dai Titani e risorto, colui che aveva lasciato in dono all’umanita’ il suo sangue come vino e il cui corpo era stato ricomposto da Demetra, dea delle messi e del pane, sia stato quello che, con il crollo del mondo antico, sarebbe stato il nuovo dio occidentale. Il suo simbolo era il tre, Trigonos, tre volte nato: una volta da Persefone, una volta da Semele e una volta dalla coscia di Zeus.
Il suo culto era associato ai misteri eleusini, ma l’iniziazione a questi non era associato ai riti della pubertà, e infatti il suo numero rimase tre, non diventò mai sette, il numero associato all’educazione dei giovani: questo numero rimase quello di Apollo e di Orfeo. L'unica traccia mnestica di un atto iniziatico mancato, come abbiamo visto sopra, emerge nel mito orfico dove “ I Titani ... lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi” (Apollodorus Mythogrphus 2, 5, 12)

Il culto di Dioniso si limitava al lutto orgiastico per la morte del dio bambino e non fu mai collegato all’accettazione degli adolescenti alla comunità degli adulti..
Rimase il dio bambino, capro divino, sbranato mentre giocava e fu così privato, nella rappresentazione del mito, della possibilità di diventare adolescente e i riti della pubertà gli furono preclusi. Solo in epoca ellenista cominciò a essere rappresentato come un adolescente effemminato, in simpatia con i culti della fertilità orientali in cui era un dio adolescente che moriva e resuscitava: Osiris, Tammuz, Adonis, Attis.
Ricomposto da una dea madre, come bambino rimase il dio che precede i riti puberali e la sua epifania rimase limitata al pasto totemico e al suo sfogo orgiastico, apologia dell’Es ininibito, come lo sono le pulsioni infantili prima della formazione di un Io inibitore.
Freud spiega che il delitto viene perpetrato su un dio giovane, in quanto condensazione del padre ucciso e del giovane che aveva perpetrato il delitto, sul quale viene consumata l’espiazione. Ma il dio sbranato dai Titani non e’ un dio giovane, e’ un dio bambino e se il mito avesse voluto solo condensare l’immagine del delitto con la sua espiazione ci avrebbe presentato un dio adolescente, come tutti i riti della fertilità orientali, dai miti di Osirides e Tammuz a quelli di Adonis e Attis e fino alla Crocefissione che ricalca gli stessi motivi.
Il dio bambino ci viene presentato nella scena della Natività, non in quella della Crocefissione, dove ci viene presentato un giovane dalle forme di Apollo, e questa ricalca la condensazione dei riti della pubertà con quelli della fertilità.
Freud scelse una scorciatoia.
Il mito di Dioniso è parallelo a quello della Natività, come abbiamo imparato anche dal brano riportato da Kerenyi, in cui anche il dio greco viene rappresentato nato in una grotta e divorato mentre stava giocando.
Quindi la storia orfica di Dioniso divorato dai Titani mentre sta giocando è quella delle pulsioni erotiche della prima infanzia, prima del periodo di latenza che comincia con il tramonto del complesso edipico verso i cinque anni, e che vengono “punite” attraverso l’azione dei Titani.
L’analisi non può prendere scorciatoie. La decodificazione deve passare attraverso tutte le diverse fasi.
Anche il divorare non è casuale. La storia è quella di una pulsione sadico-orale, che secondo la legge del taglione viene punita da un divoramento parallelo.
Dioniso rimase la vittima sacrificale, non arrivò mai a compiere l’atto eroico e quello eterosessuale dei giovani novizi. Questi spetteranno ad Apollo.
Quello che il mito greco scompone in due miti diversi, quello di Dioniso e quello di Apollo, il primo con il suo tre e il secondo con il suo sette, il mito cristiano riunisce nella storia di un unico Eroe, anche se la sua storia presenta la stessa scissione: da una parte la Nascita e la primissima infanzia, e dopo un lasso di tempo che corrisponde al periodo di latenza tra il crollo del complesso di Edipo e la reattivazione pulsionale della pubertà, quella di un giovane adolescente che strabilia tutti mostrando la sua saggezza ai dottori della Legge nel tempio di Gerusalemme (Luca 2,41-8).
E da li’ di saggezza in saggezza fino all’albero della Croce, come i giovani novizi che vengono fatti morire e rinascere simbolicamente, nella macchia della foresta, come nei riti della fertilita’ degli altri giovani dei.
La conoscenza immanente di Dioniso è dunque dissociata da qualsiasi imbrigliamento e sublimazione: è conoscenza pulsionale in antitesi completa alla sapienza insegnata del sette di Apollo, il dio della sapienza.
Il tre del dio caprino rappresenta la completezza dell’essenza pulsionale, il fallo non come soluzione metafisica raggiunta in un processo di doing e undoing ma come la verità assoluta dell’immanenza esistenziale.
Questo tre appartiene allo strato primario dell’essenza umana, su questo si costruiscono tutti gli altri, in una graduale sublimazione alle insegne degli insegnamenti di Apollo, che però comportano anche una perdita di intensità.
Quello che Freud chiama “la perdita della civiltà”.
L’identificazione con Dioniso nei misteri a lui legati condensa sia l’esplosione orgiastica di liberazione, avvenuta nel delitto primordiale, sia l’identificazione stessa con  con il corpo del padre ucciso  e con la di lui essenza, quella del potere assoluto che godeva sull’orda primordiale e la mancanza assoluta di inbizione pulsionale.
Al padre dell’orda era tutto permesso e così ora anche ai figli che nei misteri dionisiaci si identificano con lui.
In questo contesto il tre rappresenta la completezza nel senso di tutto quello che si può desiderare: una mancanza d’inibizione assoluta.
Il tre di Dioniso era all’inizio di tutto, lo sfogo pulsionale assoluto, ma l’altro aspetto della stessa moneta era la morte tragica del giovane dio.
Il cristianesimo operò una sintesi con la salvezza della saggezza di Apollo e risolse la dicotomia nella formula salvifica della Santa Trinità.
Il tre del Cristo e’ la vera soluzione poichè condensa in se non solo lo sfogo pulsionale bensì anche il suo superamento attraverso la saggezza di Apollo, che si traduce in Redenzione. Il tre aggiunge alla propria formula quel contenuto di riconciliazione che gli permette di esentarsi dal periodico anniettamento, il taglione e la sua legge, rappresentato dal divoramento dei Titani. Attraverso la metafisica del meccanismo salvifico tutto viene proiettato in cielo.

ORFEO,  APOLLO  E  IL   DIO  EBRAICO

Crediamo a questo punto di aver decodificato i contenuti condensati del tre di Dioniso e del sette di Apollo.
Ma c’è un altro dio associato al sette: Orfeo.
Il dio, come Apollo, è associato ai giovani e alla loro istruzione.
Come abbiamo visto sopra, il sette appare nei sette mesi durante i quali deve rimanere in una caverna sotto un’enorme rupe, dopo aver passato sette giorni senza assumere cibo presso il fiume degli Inferi, in una caverna, simbolo del ventre materno, da cui poi rinascerà.
In questo periodo si tenne lontano dalle donne e si recavano da lui i selvaggi abitanti del bosco, satiri e giovani ragazzi. Orfeo li educava all’astinenza dalla carne, cantava loro l’origine delle cose e degli dei e li iniziava ai misteri che aveva appreso dalla regina degli Inferi durante la sua visita all’al di là.
Qui il processo iniziatico, con le sue astinenze, la rinascita e le sue istruzioni appare in maniera esplicita.
Si associa ai satiri, come Dioniso, e di questo dio condivide l’aspetto selvatico o pastorale. Sembra una via di mezzo tra l’animale Dioniso e il bel giovane Apollo. Sembra quasi uno stadio si passaggio tra il capro divorato ferocemente e l’epifania di luce e di saggezza del dio delfico.
In comune con Apollo ha anche la lira, uno degli strumenti musicali piu’ arcaici.
Ma il dio originale della musica è Orfeo. Apollo si associa alla musica e alla lira solo gradualmente quando perde l’aspetto minaccioso del dio iniziatico. L’arco terribile di Apollo si trasforma un po’ alla volta nella lira che tiene in mano e che aveva preso ad Orfeo, pari passo all’evolversi delle sue minacce in saggezza civilizzatrice.
 La musica di Apollo è già arte, non è più la musica orgiastica delle Bacchanalya di Dioniso accompagnatrice della danza sfrenata e della scarica motoria associate al culto del dio caprino.
Theodor Reik nel suo esteso lavoro sulle origini dello Shofar, il corno rituale ebraico, (in Il rito religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969) ha trovato che presso tutti i popoli  l’invenzione della musica è associata a un dio o a un semidio che comunica agli esseri umani la sua sofferenza per mezzo di suoni. L’autore fa convincentemente risalire questi primi suoni, che avrebbero ispirato anche i primi strumenti musicali, alla voce in agonia del primo dio, l’animale totem ucciso.
Lo Shofar il corno di montone, è lo strumento musicale che condensa il dio stesso e il suono della sua voce in agonia. Infatti la Bibbia fa risalire l’invenzione della musica a un patriarca che si chiama Iuval (Gen. 4,21), e questa parola in ebraico significa appunto ariete. Ovviamente prima che il redattore biblico operasse la sua azione censoria questa figura era quella di un dio, che fu poi degradato a mortale.



Se così, il primo dio, Dioniso, il capro sacrificato avrebbe dovuto essere lui il dio della musica. E infatti la prima musica, quella orgiastica del baccanale, è associata al dio caprino. Nietzsce in tutta la sua opera fa riferimento alla musica come manifestazione dell’ebbrezza dionisiaca in contrasto all’ebbrezza apollinea dell’arte.
Ma Dioniso, come abbiamo visto, era un’epifania divina troppo associata al selvaggio e allo sfogo pulsionale non mediato perchè gli fosse attribuita quella connotazione civilizzatrice che alla fine si polarizzerà nella figura di Apollo. E la musica, nata come espressione di sfogo pulsionale, si sviluppa però, durante i secoli, in formula d’incivilimento e sublimazione.
Per gli Ebrei il suono del corno del capro diventerà la formula della salvezza, e questo viene suonato solennemente alla fine del giorno dell’Espiazione per convincere il Signore ad aprire le porte dell’assoluzione.
Eppure la percezione che la musica dovesse la sua origine al selvatico, al primordiale, premeva troppo per essere associata solo ad Apollo.
Così venne creato un dio intermedio, meno selvatico di Dioniso ma pur sempre a lui associato attraverso le figure dei satiri con cui convive nella foresta, meno civilizzatore di Apollo, ma pur sempre legato a lui dall’azione educativa dei giovani, dalla rivelazione dei segreti, e alla fine gli consegnerà persino la sua lira, simboleggiando così la metamorfosi della musica stessa da strumento per la scarica orgiastica a quello di medium di sublimazione.
Così Orfeo divenne il dio della musica, un compromesso tra i contenuti autentici della musica dionisaca, apologia delle pulsioni ininibite dell’Es, con la sua connotazione di terrore e di violenza come questi trovano espressione nel mito del dio bambino lacerato e divorato dai Titani, e quelli della sublimazione e dell’arte di Apollo.
Il mito di Orfeo ci rivela ancora molte cose.
Il dio perde la donna amata, scende negli inferi, convince per mezzo della musica Ade a restituirgliela, e la riperde definitivamente per un involontario peccato di voyerismo.
La morte (la discesa negli inferi) e la rinascita si riallacciano al mito orfico di Dioniso ucciso dai Titani e ricomposto da Demetra. Qui si tratta ancora di un dio bambino, lì già di un dio adolescente, qui una morte violenta collegata al pasto totemico, lì di una discesa al mondo dei morti.
Gli aspetti selvaggi del mito dionisiaco vengono addolciti, come “civilizzati”, nel mito di Orfeo, il quale viene anche associato a una donna amata, come per definire la sua saga al periodo puberale in cui avvengono i primi innamoramenti e i primi rapporti etrosessuali.
Anche in questo, dunque, Orfeo reppresenta un annello di congiunzione tra Dioniso e Apollo, il quale, pur essendo il dio più associato ai riti d’iniziazione puberali, non muore e rinasce, malgrado questi elementi facciano parte essenziale del rito.
Ed ora alla musica: Orfeo commuove il dio degli Inferi attraverso la sua musica e lo convince a restituirgli l’amata.
Il mito greco non ci dice niente del peccato di Orfeo che aveva provocato il terribile castigo della perdita dell’amata, ma in tutto l’oriente ellenizzato e anche a Roma venivano eseguiti culti in cui un giovane dio muore e risorge in associazione diretta con un peccato di incesto con una dea madre che era diventata la sua amante: Cibele e Atti a Roma, Rea e Atti in Grecia, Afrodite-Adonis in Fenicia, Isthar-Tammuz in Siria e Palestina, Iside-Osiris in Egitto ecc. Quindi e’ logico associare anche la morte –rinascita di Orfeo con la sedimentazione peccaminosa di ogni rapporto eterosessuale, in quanto associato inconsciamente all’incesto.
Ade, come abbiamo visto sopra, era anche un’epifania di Zeus (p.8), il padre degli dei, ovvero dio-Padre par excellence, quindi l’Eroe del nostro mito chiede l’assoluzione a dio-Padre e questa gli viene concessa in grazia della musica.
Questa associazione suono-perdono l’abbiamo già incontrata parlando del corno rituale ebraico. Rivediamo ora più da vicino questo nesso.
Nel Talmud babilonese  Rabbi Joshia chiede:

“Sta scitto: “Salute al popolo che comprende il suono del corno”. Forse che il resto dei popoli non conoscono il modo di suonare l’allarme? Quanti strumenti a fiato essi hanno! Quante buccine, quante trombe! E tu proclami: “Salute al popolo che comprende il suono del corno”. Resta pero’ il fatto che Israele sa come procurarsi il perdono del suo Creatore per mezzo del suono dello shofar. Iddio si alza dal suo seggio di giudice e va al trono della misericordia, e la compassione gli commuove il cuore; Egli da giudice severo diventa giudice misericordioso” E ancora: “Essi sanno come rendersi devoti al loro Creatore suonando lo Shofar”.

Nella preghiera mattutina del primo giorno del Nuovo Anno si legge: “Io lo persuadero’ con lo shofar, cadendo sulle ginocchia difronte a Lui” e in quella di mezzogiorno (Mussaf): “Noi suoniamo lo shofar durante la preghiera per persuadere Te o Onnipotente”.
Orfeo ottenne dunque il perdono del Padre, attraverso la sua musica, come gli Ebrei ottengono il perdono attraverso la loro.
L’unica differenza consiste nel fatto che questi hanno mantenuto in tutta la loro multi-millenaria evoluzione lo strumento musicale originario, il corno di montone, mentre i Greci del tempo del mito orfico lo avevano già sostituito, dal corno di Dioniso, il dio caprino, alla lira di Orfeo.
Orfeo aveva imparato in carne le conseguenze dell’incesto e ora insegna ai giovani che lo seguono nella foresta l’astinenza dalla carne, affinche’ un peccato di parricidio- cannibalismo non faccia fare loro la fine di Dioniso e raccomanda loro l’astinenza sessuale, affinchè non debbano scendere agli inferi a ricercare inutilmente l’amata.
Istruendo i giovani sui suoi misteri li inizia, prima ancora di Apollo, all’inibizione e alla sublimazione.
Orfeo è un dio associato al sette come Apollo e quindi  un dio legato all’educazione dei giovani, ma a differenza del dio delfico manca completamente di qualsiasi connotazione minacciosa.
La soluzione è semplice: Orfeo non rappresenta la generazione degli adulti, bensì rimane lui stesso un adolescente: come tale insegna ai suoi coetanei la sua dolorosa esperienza iniziatica mancata.
Era sceso agli inferi e ne era risorto, ma la sua esperienza iniziatica non era stata coronata dal successo come quella dei novizi che alla fine del rito puberale acquistano la licenza sessuale ed hanno il primo rapporto eterosessuale. Se il rapporto non riesce il novizio muore. E Orfeo aveva mancato, la sua Euridice gli era stata tolta, come il marito di Anna, figlia di Fenuele che era morto senza aver potuto procreare (Luca 2,36) e i sette fratelli descritti da Matteo (22,25) che erano morti uno dopo l’altro appena sposati.
Il rito iniziatico non era stato seguito dal rapporto eterosessuale, l’amata era andata persa, e quindi lui non aveva potuto superare la soglia della pubertà, ed era destinato a rimanere nel bosco insieme agli altri adolescenti.
La sua perdita era stata seguita da un’eterna condizione di omosessualità puberale, priva della sapienza del rito iniziatico superato: questa spetterà solo ad Apollo.
Il mistero di Orfeo conserva ancora la traccia dell’atto cannibalistico che risolve attraverso l’astinenza dalla carne, come il cristianesimo risolverà attraverso l’esorcizzazione dell’Ostia Sacra, e racconta ai giovani che lo seguono di un incesto punito con la morte, che esorcizza mantenendosi in astinenza.
Quelli di Dioniso e di Orfeo rimangono misteri, atti di fede, e il cristianesimo si riallaccerà a questo strato e dichiarerà impenetrabili le vie e la configurazione della divinità: un mistero la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione, l’Incarnazione, la natura del Cristo ecc.
Apollo, invece, nella sua figura di Febo, che significa “puro-pieno di luce”, rappresenterà il passaggio da quello dei misteri a quello della luce, della saggezza e alla fine della Rivelazione, il suo oracolo proporra’ la soluzione dell’enigma, anche se in forma astrusa, decodificabile attraverso la sapienza e alla fine della fede che si trasfigurerà in grazia ed accettazione. Quello di Apollo non è già piu’ un mistero indecifrabile, i degni vi riusciranno: con la saggezza e la fede propone la salvezza. Anche a questo strato si riallaccerà il cristianesimo. Il Cristo verrà sacrificato come Dioniso, scenderà agli Inferi a raccogliere le anime, vi resterà tre giorni (Matteo 12,40), resusciterà come Orfeo, come questi raccomanderà l’astinenza, e alla fine si rivelerà in tutta la sua epifania di luce, bellezza, sapienza e sublimazione come Apollo.

Quello che il mito greco scompone in tre dei diversi Dioniso, il dio lacerato e sbranato, il parricidio primordiale, Orfeo il padre della musica, condensazione di peccato (l’incesto) e perdono attraverso la sublimazione della musica stessa, Apollo il dio minaccioso e terribile che si trasfigura in quello dell’insegnamento della morale e della saggezza e quindi dell’arte, la sublimazione per eccellenza, i Cristiani trasfigurarono in quella del Cristo, che da capro sacrificale si sublimò in dio della saggezza e della misericordia, attraverso la sua multeplice epifania di dio Bambino, Dio adolescente crocifisso e dio Padre in un’unica sintesi.
Gli Ebrei condensarono tutta la saga esistenziale in un’unica immagine, che non fu neppure tale, poichè Jahvè non si può vedere. Il suo nome è così terribile e innominabile proprio poichè concentra in un unico sè tutta la condensazione di quelli elementi che trovarono, invece, espressioni diverse nella mitologia greca e nel cristianesimo, permettendo di scaricare, attraverso la scomposizione dell’immanenza esistenziale in miti diversi e in immagini, la pressione terribile che nella sintesi del dio ebraico rimase condensata e compressa.
Se il cristianesimo dovette imporre il mistero e il dogma, nel timore che i veri volti del loro dio riemergessero dalla rimozione e apparissero improvvisamente su quel poliforme schermo allestito dal modus mentale greco, ecco gli Ebrei risolsero il problema in maniera molto più efficace e più consona al proprio modus mentale.
Questi accettarono l’inibizione stessa del tatto e della vista; il Dio non si vede, va adorato attraverso il rito. Esiste nell’ebraismo un solo dogma: il Dio è uno. E questo dogma è molto facile da osservare poichè, se come ci ha insegnato Freud, il primo dio era il padre e ognuno ha dell’idea di Dio quella che nella prima infanzia aveva del proprio padre, Dio e’ veramente uno solo, poichè ognuno ha un solo padre.
La cultura occidentale, scomponendo questa unità in multiformi rappresentazioni sceniche, si abbandonò allo sfogo pulsionale del tatto e della vista, ma sotto il peso delle contraddizioni interne che si formavano sullo schermo come conseguenza della poliedricità stessa delle rappresentazioni emerse, dovette alla fine cercare rifugio nei misteri e nel dogma e impedire il pensiero.
L’ebraismo, risolta tutta la complessità della multivalenza pulsionale nell’inibizione  e nell’anti-immagine di un dio unico che non si vede, non ebbe bisogno di ulteriori costrizioni e gli Ebrei poterono liberare una quantità di energie enormi alla speculazione intellettuale e al libero pensiero.
Gli occidentali divennero cosi’ maestri d’arte mentre gli Ebrei diventarono maestri d’intelletto.
Quando Apollo depose il suo arco, abbandonò anche il suo sette, e a una rimozione indotta dal terrore ne sostituì una messa in atto attraverso l’educazione e la colonizzazione civilizzatrice.
Le soluzioni di Apollo divennero così un ordine morale.
Gli Ebrei risolsero il terrore di Jahvè e il suo sette in maniera simile, ma molto diversa. Come il volto minaccioso di Apollo si era trasfigurato in un sorriso arcaico e il suo terrore in opera civilizzatrice, anche il “volto” del dio ebraico, che aveva minacciato i suoi figli in ogni occasione si trasfigurò in quello di un padre misericordioso che consegna in blocco, ex macchina, la Legge al suo popolo e lo difende dai suoi nemici,.
Il sette di Jahvè non fu mai deposto. Gli Ebrei rimasero una tribù ideale figli di un unico Padre, com’era stato quello originale.
Invece di una rimozione risolta nella canalizzazione delle energie in rappresentazione figurata e in sfogo pulsionale sublimato attraverso il medium della raffigurazione, tutte le energie furono arruolate a un’ulteriore inibizione pulsionale che sfociò in sottomissione assoluta alla Legge del Padre.
Queste energie, sotto il peso della rimozione furono interiorizzate e potenziate e sfociarono in sublimazione  attraverso il medium della Legge stessa.
Invece di templi e cattedrali, statue e città di marmo, la Legge rimase il loro unico ordine morale. La Legge fu adattata ogni volta a secondo dell’evoluzione interna del popolo, ma rimase l’unico medium. Concentrando tutte le energie nella direzione dell’inibizione pulsionale, salirono sempre di più sui gradini della spiritualità e dell’elaborazione mentale.
La Scrittura diventò il grattacielo che si innalza alle vette più alte e il sette del dio ebraico si fuse con questa in un’unica unità.

La Scrittura rimase il medium di Jahvè per iniziare il suo popolo come l’arte, il volto di Apollo e il suo sorriso arcaico scolpito sul frontone dei templi, fu lo strumento dell’iniziazione di Febo.


IL  DELFINO

Un’associazione interessante, a proposito di Apollo come dio iniziatico in un’unica condensazione con la figura del Cristo ci è fornita dalla caratterizzazione dell’erede al trono di Francia, sotto il nome di Delfino.
Il Delfino, infatti, era un animale sacro ad Apollo (anche il nome Delfi, la città dove il dio aveva il suo oracolo, deriva da Delfino) e Apollo stesso si presentava spesso sotto le sembianze di un delfino.
La storia del nome è nota: il Delfinato, una regione della Francia, prendeva il nome dal suo Signore, che veniva appunto chiamato Delfino. Una volta annessa al regno di Francia, l’ultimo Delfino chiese e ottenne che da allora in poi con questo titolo fosse chiamato il principe ereditario di Francia.
Il principe Delfino, quindi, era come Apollo un dio iniziatico, il dio–figlio adolescente che prende il posto del Padre, quando questi dovette rinunciare al suo titolo, per cederlo al Figlio.
Qui il numero sette non è presente in maniera esplicita, ma attraverso comunque il richiamo alla simbologia apollinea. D’altra parte, la simbologia usata è un linguaggio funzionale a esprimere un contenuto, e questa simbologia del Delfino–Apollo sembra condensare in una sola persona (il Delfino) il ricordo mnestico degli antichi riti di iniziazione, che avevano come protagonisti i sette fratelli, qui condensati necessariamente da un’unica persona. Sette = Delfino = Apollo.
La condensazione ritorna anche in un altro contesto: nella Pasqua cristiana, infatti, e durante i Venerdì, i fedeli sono tenuti a cibarsi di pesce.
Gesù risorto, infatti, veniva rappresentato come pesce, e il pesce era uno dei simboli dei primi cristiani. La Pasqua ci ricorda la risurrezione di Gesù. Gesù, morto come Dioniso, è risorto come Apollo. Adesso ci è chiaro, dunque, che il richiamo al pesce nella Pasqua va dunque interpretato nell’ottica dell’identità apollinea del Cristo risorto.
Apollo è anche il dio del sole. Come sole e astro principale dell’universo verrà anche rappresentato il Cristo nelle rappresentazioni figurate. Il Re Sole era il re di Francia e persino i Visconti milanesi scelsero questo simbolo per rappresentarsi.
Ogni sovrano si autopercepisce, dunque, come sintesi di Padre ma anche di dio-figlio rappresentante dell’orda dei fratelli.
 

L’APOCALISSE DI GIOVANNI

Ed ecco l’Apocalisse di Giovanni che ostenta il numero sette, simbolo fallico carpito agli Ebrei, per ripresentare all’Occidente la formula magica attraverso la quale gli viene offerta la salvezza.
Il rito d’iniziazione, che era stato superato e rimosso dalla civiltà greco-romana, all’apice della sua crisi le viene riproposto.
L’Apocalisse fa riemergere dalla rimozione il dio iniziatico, che terrorizza gli Achei e minaccia di ucciderli intorno alle mura di Troia, in un’unica condensazione con il dio che aveva portato la sua grande prova iniziatica distruggendo l’umanità nel Diluvio Universale e aveva iniziato gli Israeliti con le piaghe d’Egitto. E, infatti, così dice l’Apocalisse: «Appena il primo (dei sette angeli) suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra...Il secondo angelo suonò la tromba...Un terzo del mare divenne sangue, un terzo delle creature che vivono nel mare morì e un terzo delle navi andò distrutto. Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi...e molti uomini morirono per quelle acque che erano diventate amare. Il quarto angelo suonò la tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente.» (Apocalisse 9, 6-12).
Perché ogni volta solo un terzo?
Un messaggio rivolto all’Occidente non poteva essere senza introdurvi il numero tre.
La nuova versione delle dieci piaghe d’Egitto continua. Dopo il sangue, la grandine e l’oscurità arrivano le cavallette, le ulcere e gli scorpioni (9,1-6).
Tutte le minacce e gli atti magici indotti a terrorizzare e a meravigliare gli Israeliti in tutto l’Exateuco, dal Diluvio Universale, all’Egitto, alle falde del Monte Sinai, all’iniziazione degli Israeliti intorno alle mura di Gerico (le trombe), vengono ripetuti e condensati nell’Apocalisse di Giovanni.
Anche le torture eterne minacciate (14,10-11) non sono altro che i tormenti che, nelle tribù primitive, i giovani iniziati devono passare per superare la prova.
Se Jahvè aveva fatto del suo popolo una tribù di iniziati perennemente intimiditi,  terrorizzati e tenuti sotto controllo, ecco i profeti del cristianesimo minacciano l’umanità intera di un estremo ultimo rito in cui tutti i figli dell’uomo verranno presi da terrore e torturati.

E Giovanni intendeva naturalmente l’ecumene greco-romana verso cui era diretto il messaggio terrificante.
Così ci dice, in realtà, il Vangelo: «Non solo gli Ebrei saranno, d’ora in poi, un popolo sacro di iniziati, un popolo eletto, bensì noi insegneremo a tutta l’umanità cosa voglia dire essere terrorizzati dal volto minaccioso di Jahvè. Noi, nuovi sacerdoti, terremo in pugno l’umanità intera terrorizzandola con l’immagine dell’inferno e di tormenti eterni. Se l’iniziazione ebraica era limitata a questa terra noi ne faremo un’estensione all’aldilà, all’eternità, e il nostro potere diventerà illimitato!»
La crisi del mondo antico li risucchiava all’indietro, verso i riti iniziatici superati.
Questi riti, una volta limitati alla sfera della vita del clan, assumono ora un validità cosmica. Il Cristianesimo si pose come meta di trasfigurarli, sfruttando il veicolo del cosmopolitismo della cultura panellenica, in verità metafisica. Tutti i contenuti esistenziali che il modus mentale antico aveva creato, dalla filosofia al cosmopolitismo, furono arruolati al nuovo fine: trasformare l’umanità intera in giovani novizi, minacciati dall’immagine dell’inferno, ed esorcizzati in obbedienza assoluta.
Allo scopo di disciplinare ed inquadrare i nuovi fedeli si rivolsero agli Ebrei, la cui classe sacerdotale aveva ormai un’esperienza millenaria nell’intimidire i figli d’Israele all’obbedienza, sotto la cappa del senso di colpa imposta da un dio-Padre onnipotente, per imparare da loro come si usa fare in una tribù per terrorizzare i propri iniziati.
E impararono fin troppo bene.

Invece di accontentarsi d’intimidire gruppi di giovani segregati nel bosco, o ai margini del deserto, o persino un intero popolo, come aveva fatto il Dio d’Israele, i nuovi apostoli, nascondendosi dietro immagini terrificanti di dannazioni eterne, tentarono di  estendere la minaccia iniziatica all’umanità intera per spaventarla ed indurla all’obbedienza. E ci riuscirono, poiché questa aveva perso la sua strada e non sapeva più a chi rivolgersi. Chiedeva essa stessa di ritornare ad essere un’umanità di figli, bisognosa di una guida che la esorcizzasse in una rimozione liberatoria.
Ma nel processo persero l’autenticità, che caratterizza il rito tribale, e da qui l’ostentazione forzata di tutto il messaggio evangelico e particolarmente dell’Apocalisse di Giovanni.
A questa sintesi, del sette minaccioso di un Jahvè, dio di una tribù di pastori, l’Apocalisse di Giovanni aggiunse tutta una serie di raffigurazioni iconodule  (12,13, 14,15), in simbiosi con il modus mentale greco-romano, ma completamente antitetiche a quello iconoclasta ebraico.
Non ci deve meravigliare, dunque, se gli Ebrei furono molto restii ad accettare un messaggio del genere. Per adoperare un’espressione biblica: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia  di Esaù » (Gn.27,22).
Ovvero, questa voce minacciosa la conosciamo, assomiglia a quella del nostro Dio, con tutti questi «sette» che ci ostenta davanti agli occhi, ma il veicolo è quello del modus mentale panellenico: non apriremo la porta al lupo che imita la voce della mamma.
Essi erano avvezzi già da molti secoli a fare la parte dei giovani iniziati in tutti i loro riti. Questo tipo di minacce lo conoscevano già a memoria.
Gli Ebrei continuarono imperterriti nei loro riti, che rispondevano pienamente alle proprie esigenze esistenziali, e così si attirarono l’odio di un’umanità che era stata iniziata, o meglio ri-iniziata, solo di recente.
E soprattutto non volevano annettere a se stessi il mondo intero: il rito tribale non ha più nessun senso se diventa una religione ecumenica.
Perdendo la propria identità specifica, avrebbero perso anche la propria ragione di essere.
Nel Vecchio Testamento i miracoli facevano parte dell’epifania di Iahve’, il dio iniziatico, ed erano parte dell’esperienza esistenziale del gruppo. Per questo il beneficiario del miracolo non èmai il singolo bensì solo la collettività.
Le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, l’epifania del monte Sinai, le guerre e le vittorie del Dio degli Eserciti sono tutti atti di rivelazione, il leit-motiv è la coesione del gruppo nella loro comunione con il Padre del clan.
Il cristianesimo, diventando una religione ecumenica in cui il rito iniziatico viene proiettato in cielo, i miracoli vengono fatti al singolo, poiché non esiste piu’ un gruppo. La specificita’ della collettività si è diluita nell’oceano dell’ecumenismo generale.


IL  REGNO  DEI CIELI  APPARTIENE AI  FANCIULLI (Matteo,19,14)

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il cristianesimo era stato una regressione esistenziale del mondo apollineo greco-romano al modus mentale del proprio passato arcaico e alle prorie radici tribali, e aveva quindi reattivato il bisogno dei riti primitivi del pasto totemico e dei riti iniziatici, che in origine erano riti della pubertà.
Ma una volta reattivato il modus mentale arcaico, si rese necessario anche un meccanismo per distillare questi riti dalla loro cruda espressione, pur mantenendo il nucleo dei suoi contenuti esistenziali.

In secoli di evoluzione il contesto mentale era cambiato e i riti iniziatici arcaici non potevano più riemergere nella loro forma originale.
Anche per gli Ebrei, in secoli di evoluzione, si erano distillati in trasfigurazione simbolica; anche se non era avvenuta una rottura con il proprio passato, come per l’Occidente, ed esisteva una continuità ininterrotta, dopotutto erano essi stessi diventati una tribù ideale, e non erano più il clan di pastori primitivo che aveva generato questi riti.
Così prese forma tutta l’ideologia salvifica del cristianesimo.

Fu conservato il nucleo emotivo ma questo trovò la sua forma in un’astrazione nuova.
La crocifissione rappresentò il rito iniziatico stesso, ma anche il suo superamento. Per usare un espressione di Hegel, il suo Aufhebung: il contenuto mantenuto ma superato ed elevato ad uno stadio superiore per mezzo di una foma nuova.
Il rito, con le sue pene, invece di venire perpetrato su tutta la comunità degli adolescenti, fu inflitto sul loro rappresentante, e ci si sarebbe accontentati, d’ora in poi, dell’identificazione con questo Dio-Figlio, emissario e vicario di tutti i figli dell’umanita’.
Non vicario del Padre, dunque, ma bensì vicario del “Figlio dell’Uomo”.
La Crocifissione, che assunse il senso dell’estremo rito della pubertà, sarebbe stato il simbolo dell’iniziazione collettiva di tutta l’ecumene greco-romana. In questo contesto il cristianesimo fu percepito inconsciamente dagli Ebrei come un sovvertimento dell’ordine sociale, poichè esenta i suoi fedeli dai riti dell’accettazione sociale che rappresentavano l’unica salvaguardia alla conservazione della tribù.

Paolo esentò i suoi fedeli dai precetti della Legge e dalla circoncisione, i due parametri della coesione del clan.
La classe dirigente romana vide, invece, nel cristianesimo una minaccia al sovvertimento del loro ordine sociale ma proprio per la ragione opposta, in quanto vedeva nei nuovi-vecchi riti una regressione dall’equilibrio apollineo raggiunto in secoli di civilizzazione.
Il rito iniziatico, che nella lontana preistoria dell’Occidente era stato lo strumento di salvezza dell’adolescente dalle proprie pulsioni aggressive ed incestuose e la sua accettazione nella società degli adulti, diventò lo strumento della proiezione dell’accettazione sociale concreta a livello astrale e si trasfigurò in salvezza dell’anima.
I Vangeli mettono in bocca a Gesù, in ogni occasione, che non era venuto ad annullare la Legge, ma in realtà questa era proprio la sua intenzione, o per lo meno quella degli Evangelisti che ne trasmisero il messaggio, e soprattutto di Paolo, il vero fondatore del cristianesimo.
Infatti questi abolì tutti i 613 precetti della Legge dichiarandoli superati, non solo, ma abolì la circoncisione, simbolo per eccellenza del rito iniziatico puberale inferto sui figli del Padre.
La Crocifissione, inflitta al Vicario di tutti i figli la rendevano superflua.
Il rito iniziatico viene proiettato in cielo e qui avverrà il giudizio finale, con le sue remunerazioni e le sue pene.

I credenti, ovvero coloro che accettano di farsi rappresentare dal Redentore, vengono anche redenti dal suo sacrificio, e di conseguenza sono anche esenti da un ulteriore rito della pubertà = pene dell’inferno, che non sono altro che il simbolo delle torture che il giovane passa per superare il rito che lo iniziava alla salvezza sociale.
Per questo la fede in Cristo è essenziale alla salvezza dall’inferno e le sue pene.
Per l’ebraismo, come per tutte le religioni primitive, la fede non è essenziale alla salvezza, poiché attraverso i riti, e questi sono essenziali all’accettazione nel gruppo, avviene l’identificazione. La fede non fa parte dell’apparato dell’ebraismo.
Perfino Spinoza, il caso più clamoroso di scomunica del popolo ebraico, fu scacciato dalla congregazione poiché si estraneava dai riti del gruppo, li aveva dichiarati non validi, e rifiutava l’autorità dei rabbini. Nessuno si interessò mai se avesse fede o no.
 Ma la fede è essenziale al cristianesimo.

Attraverso la fede che il rito iniziatico sia stato inflitto sul corpo del Vicario, avviene la salvezza.
L’inferno infatti non viene minacciato a chi commetta peccato, poiché la presenza di pulsioni aggressive ed incestuose (il peccato) è scontata a priori, al punto che il peccato diventa una conditio sine qua non per la redenzione. Il cristianesimo ama i peccatori. E quasi tutti i santi furono canonizzati grazie a un atto di fede avvenuto dopo il peccato. Il Cristiano è tenuto a sentirsi peccatore.
Gli Ebrei non concessero la delega a venire rappresentati dal Cristo nell’estremo sacrificio iniziatico, e quindi furono dannati, indipendentemente da eventuali meriti del singolo individuo.
I Cristiani si auto-esentano dal rito puberale e furono accettati, grazie alla fede, nel regno dei cieli, ma questo diventò “quello dei fanciulli”, anestetizzato dai tormenti del rito, in grazia del Figlio di Dio, rappresentante dell’orda primordiale dei fratelli, che li aveva subiti al posto loro.
Il mondo apollineo, regredito allo strato mentale rimosso, aveva restituito il pasto totemico e il rito puberale in un’unica condensazione ma, proiettandolo in astrazione attraverso il nuovo simbolismo, evitò di dover ripristinare i riti nella loro cruda forma originale, poiché dopo molti secoli di evoluzione apollinea non sarebbe stato né accettabile, né possibile.
Mentre gli arcaici riti della pubertà portavano agli adolescenti la “salvezza sociale”, ovvero la loro accettanza nel mondo degli adulti = salvati = rinati = membri rispettabili della tribù, la nuova salvezza fu trasfigurata in salvezza dell’anima e il teatro degli eventi si spostò dall’aldiquà a “l’aldilà”, e il regno dei cieli diventò la controparte ideale di quello della terra.
In questo contesto diventa chiara anche la frase “Meglio per te entrare monocolo nel regno di Dio, che avere due occhi ed essere gettato nel fuoco dell’inferno” (Marco, 9,47).
L’allusione è che per entrare in cielo sia necessario perdere un occhio.
Ma l’occhio è il simbolo del genitale. Qui riemerge dal rimosso la traccia mnestica della forma originale che prendeva il rito della pubertà, la minaccia di evirazione, inflitta dal Padre sui figli e simboleggiata dalla circoncisione.
Paolo aveva esentato i fedeli dalla circoncisione ma propone loro invece di perdere un occhio: il senso rimane lo stesso.
Nietzshe aveva capito l’antifona, quando dice a proposito di questo versetto di Marco: “Non è proprio all’occhio che si pensa” (L’Anticristo, Adelphi, p.61).
In cielo i novizi sarebbero stati accettati in blocco in grazia della fede che le pene iniziatiche erano già state inflitte sul corpo del loro Vicario.
Ma c’era un turbamento, che non era stato completamente superato; il sospetto che senza provare di persona i tormenti del rito non sarebbero mai diventati adulti.
La scorciatoia proposta dal cristianesimo non era completamente convincente e questo turbamento emerge nella famosa enigmatica frase: “Il regno dei cieli appartiene ai fanciulli.”
Emerge così dalla rimozione il concetto che senza il rito iniziatico in carne i fedeli sarebbero rimasti solo dei fanciulli
L’ideale del cristianesimo diventa un’umanità esente dai dolorosi riti della pubertà, e quindi un’umanità di fanciulli.
L’intuito folgorante di Nietzsche aveva colto al volo il nocciolo del problema. Ascoltiamo le parole di questo grande uomo che era vissuto prima che tutte le ricerche degli antropologi moderni e degli psicanalisti ci avessero illuminato sugli arcaici riti iniziatici puberali:

La buona novella è appunto quella che non esistono più contrasti: che il regno dei cieli appartiene ai fanciulli; la fede che fa sentire ora la sua voce non è una fede conquistata con la lotta, essa esiste, è sin da principio, è per così dire, un’innocenza fanciullesca ricondotta nella fede spirituale. Il caso della puberta’ ritardata, e non sviluppatasi nell’organismo (Ibidem, p.41).

Dopo aver girato in lungo e in largo ritroviamo sulla nostra strada frammenti che avevamo già incontrato ma che non avevamo ancora gli strumenti per identificare chiaramente. Ora possiamo avvicinarci nuovamente a un versetto che avevamo messo da parte all’inizio nella speranza di poterlo utilizzare in seguito.
E le nostre aspettative non si sono dimostrate vane.

Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo,18,21).

Non è un caso che proprio Pietro, colui che terrà in mano le chiavi alle porte del Paradiso, chiede a Gesù quante volte dovrà perdonare al suo fratello.
Lui che è stato messo di guardia alle porte alle quali verranno ammessi i giovani novizi, chiede qual’è la formula che aprirà loro la soglia dell’accettazione alla società dei cieli.
E la risposta è naturalmente sette.
Non solo, ma il Vangelo viene a rassicurare i novizi contro ogni dubbio sulla validità della fede come sostituzione del rito: la fede in Cristo sarà settanta volte sette più valida degli antichi riti della pubertà che viene a sostituire.

Il perdono ai fratelli è esattamente quello che viene accordato ai giovani al termine del rito, che depura e distilla le pulsioni parricide e incestuose.
Attraverso il sette viene concesso questo perdono, e ora ci è diventata chiara la sostanza della domanda di Pietro e della risposta di Gesù.


LA  CONFERMA  DELLE  FIABE

Non riporteremo tutte le fiabe in cui appare il numero tre, poiché ci sembra che non vi sia bisogno di un’ulteriore conferma che il tre sia un simbolo fallico. Questo simbolismo è ormai universalmente conosciuto e noi abbiamo focalizzato la nostra ricerca solo su quelli aspetti che non erano ancora stati sufficientemente scandagliati.
Riporteremo, invece, alcune fiabe in cui appare il numero sette, come prova che questo sia un simbolo iniziatico, poiché ci sembra che questo sia l’aspetto che non era stato, finora, sufficientemente chiarito.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti il numero sette, con la crisi del mondo antico, emerge prepotente nel cristianesimo e nel folclore occidentale.
Le tracce mnestiche degli antichi riti d’iniziazione rimossi premevano sempre di più per un riconoscimento.
La fiaba popolare, il rusticus, ci presenta queste tracce in modo evidente.
I Fratelli Grimm raccolsero queste fiabe, che venivano tramandate oralmente da molte centinaia di anni (C’era una volta...), raccontate nelle lunghe ore buie delle notti dell’Europa medioevale. Cercheremo di analizzarne alcune.

1) «Il Lupo e i Sette Agnelli».
C’era una volta...una Mamma Pecora che viveva in una bella casetta con i suoi sette agnelli. La mamma doveva lasciare spesso la casa per andare al mercato. Ogni volta, prima di uscire, ammoniva i figli di non aprire a nessuno, poiché girava nei dintorni un lupo mannaro.
La storia ci racconta come, una volta che la mamma era assente, il lupo si presentò alla porta e con vari stratagemmi tentò di farsi aprire. Alla fine ci riuscì. I sette agnelli si nascosero ognuno in un posto diverso, ma il lupo riuscì a trovarli tutti e a divorarli, tranne il settimo, il più piccolo, che riuscì a nascondersi nello stretto spazio dell’orologio a pendolo del nonno, fino al ritorno della mamma.
Quando Mamma Pecora ritornò aveva perso i suoi sette figli, come la madre descritta nel secondo libro dei Maccabei (p.18).
Ma l’agnellino, il settimo e il più piccolo, balzò fuori dal nascondiglio e raccontò tutto alla mamma. Ella prese immediatamente un coltello e tagliò la pancia del lupo, che nel frattempo si era addormentato, e ne balzarono fuori i sei agnelli, che poterono così riunirsi al fratellino. Era questi, infatti, che aveva raccontato alla mamma gli avvenimenti e salvato i fratelli.
La fiaba trasfigura sette giovani, come quelli che abbiamo incontrato nelle pagine precedenti, in sette agnelli. Sette agnelli come quelli che Abramo sacrificò nella cerimonia del suo patto con Abimelech (p.15), come i sette agnelli sacrificati dai figli d’Israele durante la festa delle sette settimane (Shavuot) (p.16), e i settemila agnelli di Giobbe che furono sacrificati al Signore insieme ai suoi sette figli (p.17).
Ma questi sette figli muoiono e rinascono, come i giovani durante il rito d’iniziazione.
E il coltello che la Mamma adopera per tagliare il lupo è la traccia della mutilazione, subita dall’iniziato durante il rito e in concomitanza con la propria rinascita.
Lo spostamento della mutilazione-evirazione dall’agnello-figlio al lupo, simbolo del Padre iniziatore terrificante, non ci trae in inganno, come non ci trae in inganno lo spostamento dal padre-eviratore alla madre.
Nella fiaba si condensa anche il bisogno di vendetta dei figli e delle madri sui padri carnefici terrificanti, come nei sogni spesso i ruoli si ribaltano per scaricare un’aggressività accumulata.
La madre era andata via (al mercato), mentre il Padre iniziatore (il lupo) terrorizzava e minacciava gli iniziati. In questi riti, infatti, i giovani vengono portati via alle madri e alle sorelle, per venire relegati lontano, nel bosco, a morire e a rinascere. Alle donne viene raccontato che saranno divorati da un mostro e non li vedranno mai più  .
Quando vengono restituiti alle madri sono rinati e mutilati.
E così infatti avviene nella fiaba.
Il settimo agnello è il più piccolo e quello per merito del quale verrà messa fine alla tirannia del Padre (il lupo).
Come nel mito greco Zeus è il figlio più piccolo che metterà fine alla tirannia di Crono, il padre che aveva divorato i Titani,  fratelli maggiori del dio. La fiaba del lupo e i sette agnelli ricalca in maniera fedele il mito greco: Zeus, il più piccolo che si era salvato attraverso gli stratagemmi della madre prende il coltello ed evira il padre e dal suo ventre rinascono i fratelli. In entrami i casi il figlio minore diventa il più importante del gruppo dei fratelli
Anche il più piccolo, l'Eroe, muore e rinasce, come tutti gli eroi delle saghe arcaiche. Solo che invece di riemergere dal ventre del lupo riemerge dalla cassa dell'orologio a pendolo dove aveva trovato rifugio, che come ogni contenitore rappresenta il ventre materno- paterno. Infatti l'orologio era del nonno, il due volte padre. Come ci ha mostrato Reik, i padri vedono nei giovani figli - novizi la reincarnazione dei propri padri, nonni dei giovani.

2) «Il Brutto Anatroccolo»
Qui i sette figli prendono la forma di sette cigni che, essendo uccelli, rappresentano il simbolo del genitale maschile.
La loro trasfigurazione condensa, dunque, l’organo sul quale viene eseguita spesso la mutilazione, l’evirazione simbolica, della circoncisione.
Il settimo figlio, l’ultimo, è anche il più importante poiché diventa l’eroe della fiaba, come il settimo agnello della fiaba precedente, e come Zeus che diventa padre degli dei.
Qui tutto il rito viene eseguito su di lui.
Viene allontanato dalla madre per tutto l’inverno, dunque un lungo periodo durante il quale viene esposto a vessazioni, e viene ritrovato quasi morto nelle acque congelate del lago da un contadino, che lo mette nella tasca della sua giacca.
L’anatroccolo rinasce dalla tasca del contadino esattamente come gli agnelli erano rinati dal ventre del lupo.
Lo scopo dei riti iniziatici è infatti di togliere i figli alle madri per farli rinascere dai padri, che d’ora in poi reclameranno tutti i diritti su di loro e con i quali questi si identificheranno .
L’anatroccolo, che era nato la prima volta dalle acque, le rinnega, infatti queste sono adesso congelate, e rinasce dalla tasca (ventre) del padre, come il settimo agnellino era rinato (balzato fuori) dall’orologio a pendolo del nonno, nel quale aveva trovato rifugio.
Al termine del rito il giovane è diventato un bel cigno adulto, che spiega orgogliosamente il suo fallo maschile (le ali) e si riunisce ai fratelli nella congregazione degli adulti.

3) «I sette corvi».
Un’altra versione con gli stessi elementi.
Qui la metamorfosi da sette giovani a sette uccelli appare nella fiaba in maniera esplicita.
I sette figli del taglialegna si comportano male al punto da avvelenare le capre dei genitori.
E questo è un particolare particolarmente interessante poiché Reik, che ha analizzato per esteso i riti della pubertà presso i selvaggi odierni, ci dice:

Ai giovani ( durante i riti d’iniziazione) cui vengono impartite le leggi e il codice morale della tribù che essi dovranno osservare, è consentito un ultimo sfogo. In Australia i ragazzi gettano fango contro chiunque incontrano. Presso i Janude nel Camerun i giovani che devono venire iniziati distruggono tutto ciò che cade nelle loro mani; e nel Darfur rubano i polli. I ragazzi, che sovente sono guidati dai loro maestri, attaccano nottetempo gli abitanti del loro villaggio e li depredano. I giovani circoncisi attaccano voracemente le stalle dei padri, rubano il bestiame, e bistrattano chiunque si opponga. I giovani durante questo periodo hanno il diritto di rubare e di compiere altri atti di violenza (T.Reik, Il Rito religioso, Boringhieri, Torino 1949, p.144)

Quindi quando la fiaba ci racconta di giovani che avvelenano le capre del padre, il parallelismo con i «giovani circoncisi che attaccano voracemente le stalle dei padri» diventa evidente.
Il taglialegna è il padre con il simbolo fallico minaccioso della scure per evirare.
Ma stranamente è la madre che maledice i figli, esprimendo il desiderio che si tramutino in corvi e quindi volino via.
I sette giovani iniziati devono spiegarsi il fatto che essi vengono allontanati dalle madri e non dai padri, e quindi la fiaba ce lo spiega dicendoci che è la madre che aveva espresso questo desiderio.
Il padre, come il contadino della fiaba dell’anatroccolo, appare in un ruolo positivo. Infatti è da lui che i giovani iniziati dovranno rinascere e con cui dovranno identificarsi.
Però la maledizione della madre è di breve durata poiché, appena i corvi-figli volano via si pente subito e sprofonda in lacrime amare, come tutte le madri a cui vengono tolti i figli affinché un mostro li divori, e a cui viene spiegato che non li rivedranno mai più.
È la giovane sorella che riporterà i figli alla madre, dopo un periodo di latenza e di allontanamento, e dopo il quale rinascono e tornano ad essere sette giovani ragazzi.

In questa fiaba appaiono anche alcuni elementi che fanno parte della saga della donna, e che non approfondiremo in questa sede.

4) Le due fiabe «I dodici Fratelli» e i «Sei Cigni» il numero sette dell’iniziazione si intrufola in un’altra maniera.
Nella prima è la sorella che deve essere muta, cioè morta, per sette anni, affinché i fratelli rivivano. Il sette appare come il numero degli anni del mutismo della sorella  paralleli a quelli della morte dei fratelli.
Anche in queste due fiabe si condensano elementi che riguardano la saga femminile, ma il sette rimane il periodo in cui i fratelli sono morti, cioè il lasso di tempo in cui dura il rito d’iniziazione.
Nei «Sei Cigni» è la sorella che completa il numero, affinché diventi sette. Qui il settimo figlio, che è generalmente anche il più importante, viene sostituito dalla sorellina. Il baricentro viene spostato. In questo mito si condensa il motivo di un’iniziazione femminile, che in realtà non ci fu, ma di cui evidentemente sentivano il bisogno.
Anche Biancaneve, con i suoi sette nani, riprende in realtà gli elementi dei riti di passaggio maschili, per trasfonderli nella donna e i suoi bisogni.


PERCHE' PROPRIO TRE 

Per il motivo per il quale il numero tre sia un simbolo peniano, Freud ha accennato alla stilizzazione del genitale maschile. Abraham, come sintesi delle tre zone erogene principali: orale, anale e urogenitale (K.Abraham, «Due contributi alla ricerca sui simboli», in Opere, B.Boringhieri, Torino 1997, vol. II, p.467).
Ma forse c’è qualcosa di più.
La lingua attribuisce un sesso agli oggetti inanimati perché li identifica con l’uomo o la donna a seconda di certe caratteristiche. Come dice Kleinpaul: «L’uomo sessualizza l’universo» .
I generi, che nel Medio Oriente antico erano due, maschile e femminile, nel mondo greco-romano diventano tre.
Se i popoli più antichi, Sumeri, Accadi, Babilonesi, Cananei ed Egizi avevano sessualizzato il mondo nei due generi, i progenitori dei Greci-Romani vi aggiunsero un terzo genere. A loro pareva più confacente all’equilibrio cosmico dividere l’universo in tre. Questo numero non era dunque solo il simbolo del genitale, maschile e femminile, bensì era l’espressione della sessualità del mondo, e da qui simbolo del tutto.

Platone lo dice esplicitamente:

Infatti, un tempo, la nostra natura non era quella che è ora, ma diversa. Dapprincipio vi erano tre generi di uomini, non due come adesso: il maschio e la femmina, e ce n’era, poi, un terzo, che partecipava di entrambi i precedenti e di cui ora rimane solo il nome, poiché esso è scomparso. Allora infatti, l’androgino era un genere a sé ed era composto, per figura e per nome, del maschile e del femminile (Simposio 189 -190)

Quello che definiamo il genere neutro non è infatti tale, qualcosa che non sia né una cosa né l’altra, bensì un terzo sesso, ovvero le due cose insieme più ancora qualcosa. Non quello che rimane per un processo di eliminazione, il non-maschile e il non-femminile, ma un sesso a sé, che, secondo Platone «partecipava di entrambi i precedenti» e che, insieme agli altri due, completava l’ordine dell’universo e rappresentava la sua piena sessualità.
Non a caso nelle lingue occidentali gli omosessuali vengono definiti “il terzo sesso”, ovvero un sesso in più, che insieme agli altri due completa la gamma della sessualità in un’unica totalità.
Se in tempi moderni il terzo sesso è nominato con derisione, non era certo così nei tempi antichi, quando l’omosessualità in Occidente rappresentava l’unione sessuale perfetta.
Il numero tre, simbolo del genitale, viene allargato a simbolo della sessualità del mondo.
Ma forse il processo era avvenuto all’inverso.
Forse il concetto che la sessualità sia composta da tre sessi si era tradotto nel tre per il simbolo del genitale.
Questo spiegherebbe come mai il tre come simbolo fallico è completamente assente nella mitologia dei popoli del Medio Oriente.
Ancora oggi, Ebrei e Arabi non hanno ancora sentito il bisogno di aggiungere il genere neutro alle loro lingue.
Il genitale maschile ha la stessa forma sia in Oriente che in Occidente e le zone erogene sono ugualmente le stesse.
Se la forma del genitale è addotta come causa per la sacralità del numero tre, bisogna anche spiegare come mai altri popoli, con lo stesso genitale, non riconoscano in questo numero un simbolo fallico.
Se invece partiamo dal presupposto che il numero tre rappresenti il numero dei sessi e da qui abbia generato il tre come simbolo fallico e, in un secondo tempo, specificamente del genitale, e questa rappresentazione sia specifica della cultura occidentale, ecco come si spiega la differenza tra Oriente e Occidente.
Per Sumeri, Semiti ed Egizi i sessi nel mondo rimasero due, quindi, per loro il tre non assunse il significato specifico di simbolo genitale.
Nella mitologia semitica non esistono triadi di mostri fallici, triadi vergini, Santa Trinità, mostri a tre teste, triadi di sacerdoti, suddivisione politica e amministrativa in tre parti ecc.
Il sapere è sapere genitale, ma non è associato al numero tre. È associato al numero sette.
Per i Greci la completezza era rappresentata dal triangolo e Pitagora ed Euclide rimuginavano sui suoi segreti. Tutta la sapienza era racchiusa in questa forma ed Edipo la decodifica spiegando i suoi tre lati nelle tre età dell’uomo, che racchiudono la vita: tutto quello che c’è.
Se Edipo non avesse usato il tre non sarebbe vissuto
Per Giuseppe il ritmo della vita e il suo segreto sono racchiusi nelle sette vacche grasse e le sette vacche magre, le sette spighe piene e le sette spighe vuote.
Se Giuseppe non avesse usato correttamente il sette, sarebbe ritornato nelle profondità della cisterna  e avrebbe portato la morte su di sé e su tutto l’Egitto.
Il modus mentale ha creato la rappresentazione.
Quindi Freud avrebbe dovuto aggiungere, nella citazione che abbiamo riportato all’inizio, «Se questo numero debba eventualmente a questa relazione simbolica il suo carattere sacro per l’Occidente...è una questione ancora aperta.»
Questa distinzione è essenziale.
In “Analisi terminabile e interminabile” , Freud postulerà:

L'esperienza analitica ci ha indotti alla persuasione che perfino contenuti psichici ben determinati come il simbolismo non hanno altra origine che la trasmissione ereditaria ( in Opere, B.Boringhieri, Torino 1989,  vol. XI, p.523).

Come abbiamo visto, per il numero tre, Freud ha accennato alla stilizzazione del genitale maschile, e Abraham come sintesi delle tre zone erogene principali: orale, anale e urogenitale, e noi vi abbiamo aggiunto la nostra tesi.
Ugualmente per il numero sette potremmo cercare di enumerare le aperture del corpo, includendo quelle del viso, che fanno anch’esse da zone erogene, come gli occhi e le narici, e forse persino le orecchie, poiché, secondo il Talmud, la voce di una donna seduce ed è paragonabile alle sue vergogne (
«Kol baishà Ervà », la voce di una donna sono le sue vergogne (Berachot 24a).
Ci pare che la soluzione sia destinata a rimanere nell’ambito delle supposizioni.
Ma alcune associazioni ci vengono alla mente.
Se il tre si associa alla perfezione e all’equilibrio cosmico, all’istantanea di immobilità, raggiunta come risultato di un gioco di forze che trovano la loro neutralizzazione reciproca, il sette si associa all’idea del movimento, della danza, del ritmo: una ballata.
Sette leghe sotto i mari, il film «Sette spose per Sette fratelli» era un musical, e i «Magnifici Sette» un film pieno di azione.

Ripetendo il numero sette si riceve la percezione del ritmo e di un «crescendo».
Sette sono le note musicali, in questo numero vengono compresi gli elementi base della musica.
Il numero sette ci porta per associazione a una collettività, a un gruppo.
Forse i giovani iniziati erano raggruppati a gruppi di sette, come pare suggerire i sette re di Roma, i sette cavalieri di Tebe, i sette figli di Giobbe (Giobbe 1,2), i sette figli torturati di cui ci riporta il libro dei Maccabei, i sette Samurai (I Magnifici Sette) , e «sette spose per sette fratelli».
Meno di sette ci pare che si associ più a un numero di singoli, sette a un identità collettiva.
Il numero, per diventare un numero sacro, doveva essere primo, quindi divisibile solo per sé stesso, cosa che lo rende simile all’unità.

Undici e tredici si sarebbero prestati ugualmente, ma forse era difficile, nelle condizioni semi-nomadiche ai margine del deserto, raccogliere ogni volta un gruppo così elevato di giovani della stessa età, da iniziare contemporaneamente.
Infatti Frazer, descrivendo questi riti, come venivano svolti nella tribù dei Jabim della Nuova Guinea tedesca, ci dice:

L’iniziazione dei giovani ha luogo a intervalli di parecchi anni, quando c’è un numero di giovani pronti ad essere iniziati e si possiede un numero sufficiente di maiali per alimentare i banchetti che sono parte indispensabile alla cerimonia (The Golden Bough: Balder the Beautiful, vol.II, terza edizione, London 1913, p. 227.).

Azzardiamo quindi che sette sia il numero più basso che indichi un’intera collettività.
Se aggiungiamo a questo quello che dice Freud: «Darwin dedusse dalle consuetudini di vita delle scimmie superiori che anche l’uomo visse in origine in orde relativamente piccole» (Totem e tabù IV,5) , ecco che forse il sette deve la sua origine fin dal numero esiguo delle prime orde, o dal numero esiguo degli iniziati in queste piccole orde, che si erano nel frattempo trasformate nelle prime tribù.
La musica, come ci ha mostrato Reik, deve i suoi esordi all’imitazione della voce del Padre ucciso, mimata dall’orda dei fratelli nei riti totemici (
Op.cit., p. 283. : «La musica ebbe origine dall’imitazione della voce paterna, attraverso l’imitazione dei versi degli animali adorati dal clan come animali totemici...». La danza, in questi riti, mima i movimenti dell’animale totemico e la sua «passione».
Quindi c’è un forte legame associativo tra il numero dei fratelli, la musica e il ritmo di danza, che progrediscono in un «crescendo», fino all’apice dell’avvenimento stesso, che è sempre lì dietro l’angolo, rimosso, implicato ma sempre nebuloso.
Più di così, per ora, non possiamo aggiungere.