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La presenza del TRE nella letteratura biblica e nel contesto mediorientale; Il Hannukkà; La stella di Davide (Maghen David)
Iakov Levi e Luigi Previdi (Fonte)

 

La presenza del tre nella letteratura biblica e nel contesto mediorientale

La difficoltà

In Egitto, il geroglifico del tre era il simbolo del "più di uno" e anche per Ebrei e Arabi il tre stava per lo stesso significato.
Il sette è invece un simbolo fallico associato esclusivamente al rito iniziatico tribale e quindi appare in intensità diversa in ogni società, a prescindere dall’estrazione etnica, a secondo del suo grado di appartenenza alla struttura sociale e mentale tribale.
Per il numero tre rimangono però alcune difficoltà che vanno appianate.
Anche se sporadicamente, questo numero appare nella Bibbia ebraica.
Per i Vangeli non ci crea nessuna difficoltà in quanto vediamo in questi una continuazione dell'espressione culturale occidentale, e non una manifestazione che abbia le sue radici nella sfera mentale ebraica.
Ritorneremo ora sugli esempi che abbiamo già menzionato, per poterli analizzare più da vicino:
1) Abramo viene comandato dal Signore di preparare «Una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni» (Gn.15,9), ma il testo ebraico non parla di tre anni bensì di una «triplice giovenca», «una triplice capra», e «un triplice ariete», ovvero tre di ogni animale, e così infatti lo interpreta Rashi.
Il motivo di questo cerimoniale era di concludere un patto tra Jahvè ed Abramo.
Come il patto tra due Arabi, descritto da Erodoto, in cui un terzo si pone tra i due contraenti a testimonianza (Hist., III,8). Il tre, quindi sta a significare un patto tra due (Jahvè ed Abramo) e il terzo è l’elemento neutro, il testimone.
E da qui anche il numero dispari.
Abramo viene comandato di tagliare in due ognuno di questi animali, e infatti in ebraico per dire «contrarre un patto» si dice, ancora oggi, «tagliare un patto», dall’antica usanza semitica di passare in mezzo ai due contraenti per sancire l’obbligo.
Questa usanza era la ripetizione del taglio di un pezzo di carne sacrificale in due, di cui ognuno mangia la sua parte, e diventano così fratelli di patto in quanto si cibano dello stesso cibo, che simboleggia il corpo del padre comune ucciso.
Nel racconto di Erodoto questo «tagliare» è rappresentato in maniera molto cruda dal tagliarsi alla base dei pollici dei due contraenti, e così si aggiunge l’elemento della fratellanza di sangue, di cui abbiamo parlato sopra.
Quindi il numero tre in questo contesto è legato a un patto tra due contraenti, di cui un terzo è il testimone.
2) I tre angeli che vanno a trovare Abramo (Gn., 18,2), ma che diventano subito dopo due (Gn., 19,1).
Rashi, nel suo commento (18,33), dice: « All’inizio gli angeli erano tre poiché ognuno aveva un compito: il primo annunciare ad Abramo la nascita del figlio, il secondo salvare Lot e il terzo distruggere Sodoma, poiché il primo aveva terminato la sua missione se n’era andato ed erano rimasti solo due".
Anche qui il tre sta in realtà per «più di uno», poiché le missioni da compiere erano più di una, e questo è il numero dispari immediatamente superiore all’uno.
In questo contesto bisogna ricordare che la parola «angelo» (malach) delle storie della Genesi non sta per la figura dotata di ali delle rappresentazioni posteriori, ma bensì semplicemente per «messaggero». Infatti questi tre messaggeri vengono chiamati prima semplicemente «uomini» (Gn.18,2 e 18,16), e solo dopo «i due angeli» (Gn., 19,1).
Quando Giacobbe manda al fratello dei  malachim (Gn., 32,4), ovviamente non manda davanti a se degli angeli, bensì dei messaggeri, e la parola ebraica usata è la stessa.
Gli uomini che appaiono ad Abramo sono tre, e diventano subito due. Il numero tre sembra casuale, e dipendente dal numero delle missioni, che sono più di una.
3) Il sogno del coppiere del Faraone: i tre tralci di vite (Gn.40,10), e i tre canestri di pane bianco del sogno del panettiere del Faraone (Gn. 40,18), interpretati da Giuseppe come tre giorni.
Quindi il tre qui sta per un lasso di tempo relativamente breve.
4) Mosè dice al faraone: «...Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore...(Es., 5,3).
Nuovamente un lasso di tempo breve.
5) «Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dal paese di Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai.» (Es.,19-1).
Il lasso di tempo si allunga a tre mesi. In contrasto ai tre brevi giorni richiesti al Faraone. È come se il testo volesse far notare che tre giorni rifiutati si trasformano in tre mesi ottenuti.
6) «Si tengano pronti per il terzo giorno...»Siate pronti in questi tre giorni: non unitevi a una donna» (Ex., 19,10; 19,14).
7) «Tre volte l’anno farai festa in mio onore...» (Ex., 23,14).
8) “Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti” (Giona, 2,2).
Quindi ogni volta il tre sta per tre giorni, il lasso di tempo relativamente breve immediatamente superiore a uno, e probabilmente ci sono altre occasioni nel testo in cui appare come tale e che ci sono sfuggite.
Possiamo poi aggiungere altre due occasioni in cui appare il numero tre, nella sfera della ritualità semitica, entrambi come parte del rito totemico.
Robertson Smith riporta un rito che veniva eseguito nel deserto del Sinai, ancora nel quinto secolo della nostra era, dalle tribù beduine .
Un cammello veniva legato su un altare fatto di pietre. Il capo della schiera faceva compiere ai fedeli un triplice giro solenne, accompagnato da canti, intorno all’altare, dopodiché tutti si lanciavano sulla bestia e la sbranavano viva, comprese pelle ed ossa.
Quindi un triplice giro intorno alla vittima.
Il secondo caso, assolutamente parallelo, è quello del rito che usano consumare gli Ebrei, ancora oggi, alla vigilia del Kippur.
È usanza prendere un gallo per ogni maschio della famiglia ed una gallina per ogni femmina, farla ruotare per tre volte sopra la propria testa, lanciarli lontano, e poi andarli a riprendere e mangiarli nell’ultimo pasto che precede il digiuno del giorno dell’Espiazione.
In entrambi i casi il tre sta per tre volte.
Per capire il significato del tre in tutti questi contesti, bisogna ricordare che nelle lingue semitiche, come l’ebraico e l’arabo, la ripetizione di una parola, di una frase o di un concetto, servono ad affermare la validità e la determinazione di questi.
Dire una cosa una volta è sinonimo di esitazione.
Ripeterla tre volte è segno di determinazione.
Anche oggi i leaders arabi come Arafat e Saddam Hussein, quando si rivolgono al loro popolo ripetono sempre le frasi determinanti  tre volte. Anche Theodor Reik ha espresso un concetto simile, quando ha affermato: "the unconscious behaves like the ancient languages. Both express the importance and significance of a process by means of repetition" ("The Puberty Rites of Savages", in Ritual, Farrar & Straus, New York 1946, p.140).
Ripetere tre volte la stessa frase o lo stesso gesto significa dunque: «È vero!», «Così è la cosa!».
Non dunque come simbolo genitale, bensì come numero più alto e indivisibile, ovvero unità a sé, immediatamente susseguente il numero uno.
Tre è dunque come uno, ma affermato, confermato dalla propria ripetizione.
In tutti questi casi vediamo che il tre viene adoperato come «più di uno» o come lasso di tempo breve.
L’unico caso con il quale non ci sentiamo ancora perfettamente a nostro agio è quello di Giobbe: tre amici vanno a visitarlo per consolarlo.
Tre amici che vanno a trovare Giobbe, ci riporta per associazione ai tre Re Magi che vanno a visitare la Vergine.
Malgrado le differenze, non possiamo rifuggire da questa associazione.
I tre Re Magi sono indubbiamente il simbolo del genitale maschile, e questo sembra far parte della sfera del modus mentale occidentale.
La storia di Giobbe, malgrado non sia una saga specificatamente ebraica, è pur sempre una leggenda legata al modus mentale mediorientale.
Infatti, i «Giusti», Noè, Giobbe e Daniele, vengono ricordati, insieme, da Ezechiele (14,14). Questo libro è anteriore a quello di Giobbe e di Daniele di almeno due secoli, malgrado nomini i due eroi. Ovviamente, mentre i libri di Giobbe e di Daniele furono introdotti nel canone solo molto tardi (IV sec. A.C.), e quindi raccolsero in sé già tradizioni che provenivano dal mondo ellenista, facevano parte della tradizione semitica già da molto prima. Giobbe, il giusto, e la sua sorte era conosciuto nel Medio Oriente prima che si stabilissero dei contatti stabili con il mondo ellenico.
Ma la storia fu messa per iscritto solo nel IV sec. A.C.
Non sappiamo se i tre amici che vennero a visitarlo furono aggiunti solo al tempo della stesura finale.
Non sappiamo se anche nella versione originale vi fossero tre amici che, come i tre Re Magi, vennero anche loro dal lontano Oriente in missione.
I tre Re Magi venivano a donare qualcosa alla Vergine, come il fallo paterno, che dona alla ragazza un bambino.
I tre amici di Giobbe ugualmente vengono a consolarlo, anche se apparentemente non gli danno assolutamente niente.
Non possiamo provarlo, ma crediamo che questa sia solo una sovrapposizione posteriore.
Ezechiele nomina Giobbe, ma non fa nessuna menzione dei tre associati.
Come, ugualmente, nomina Daniele, ma non menziona i tre amici, Sadrach, Mesach e Abdenego che furono gettati nella fornace da Nabucodonosor (Daniele, 3,13-24).
E il libro di Daniele è il più tardo dei libri entrati nel canone ebraico, incluso solo «per il rotto della cuffia»  in piena epoca ellenista.
Sia la storia di Giobbe, che quella di Daniele, contengono elementi filosofici completamente estranei alla Bibbia ebraica fino ai primi contatti con il mondo ellenista.
Il Dio, descritto in questi due libri, non ha più niente in comune con il dio iniziatico terribile che minacciava i suoi figli in tutte le occasioni enumerate nei capitoli precedenti. Non è più solo il Dio particolare della tribù e assume pretese cosmiche. Anche la sua giustizia diventa ecumenica. Da Dio ariete si trasfigura in Dio astrale.
Il tre che comincia, improvvisamente, ad adoperare viene da altre parti.
La filosofia greca, utero del cristianesimo, è la sua fonte, e ci pare che lì vadano ricercate le sue origini.
Come abbiamo visto sopra, in Egitto il geroglifico del tre era il simbolo del “più di uno” e anche per Ebrei e Arabi il tre stava per lo stesso significato.
L’Egitto è un fenomeno difficile da decodificare: è la società che tendeva a comprendere tutte le soluzioni senza scartarne nessuna. Ogni simbolo, una volta fatta la sua apparizione, non veniva mai scartato o superato bensì sempre assommato a quelli esistenti. Così, si creavano sovrapposizioni e ripetizioni all’infinito. Una società dapprima tribale e poi, in un fiat ex machina, diventata di colpo civiltà, non abbandonò i simboli della struttura tribale, come la circoncisione e i simboli totemici dei vari clan pre-dinastici, bensì li inserì nel contesto nuovo che si era creato. Il faraone fu così, fin dall’inizio, sia simbolo del Padre che dello Stato in una sintesi astrusa a qualsiasi altra cultura.
Gli Egiziani non erano semiti, non erano indoeuropei, nè forse camiti, diversi in tutto dai Greci ne anticiparono per primi alcune istituzioni come la monogamia  e l’astinenza dalla prostituzione sacra . Influenzarono in maniera indelebile gli Ebrei che, anche se si rifiutarono energicamente di riconoscerlo, ne adottarono alcune norme morali che diventarono il simbolo stesso della ritualità ebraica .
Quando si cerca di creare qualche concordanza, bisogna quindi andare molto cauti.
Gli Egiziani riuscirono a confondere anche un uomo lucido e sagace come Erodoto, che dopo aver trovato paragoni tra Egizi e altri popoli fu costretto ad ammettere, quasi suo malgrado che : “Rifuggono dall’adottare usi del popolo greco, per dire in una parola, da nessun altro popolo al mondo accettano costumanze: così in generale gli Egiziani se ne guardano bene” .
Quando troviamo, quindi, anche in Egitto delle triadi in cui appare un dio maschile, una dea e un giovane dio, come Osiride, Iside e Oro, Amon-Re, Mut e Klonos o, in epoca ellenista, Haroeris, Tsenetnofret e Pnebtawy, queste triadi sono forse il  prototipo della Sacra Famiglia, ma non possiamo imparare di più.
Essendo il primo popolo monogamo avevano sentito il bisogno di proiettare in cielo l’immagine della loro struttura famigliare.
Non sappiamo se attribuire agli Egizi il diritto di essere considerati i precursori della struttura a triade della famiglia monogoma occidentale, anche se probabilmente erano giunti ad adottare la monogamia sotto l’influsso di pressioni simili a quelle che saranno, più tardi, presenti anche in Occidente.

Il  Hannukà

Esiste una festività, entrata zoppicando nell’Ebraismo, su cui desideriamo dire alcune parole, poiché sembra sottendere una tesi antitetica a quello che abbiamo sostenuto finora.
Il Hannukà (L’inaugurazione), celebra la vittoria di Giuda Maccabeo sull’esercito  seleucide di Antioco IV (Epifanes) nel 164 A.C.
Dopo questa vittoria i Maccabei entrarono a Gerusalemme e poterono purificare il Tempio dalle immagini idolatre, introdotte dai pagani.
Come prima cosa era necessario, per ristabilire il culto del Signore, riaccendere il lume sacro che doveva ardere perennemente davanti all’altare, ma questo poteva essere fatto solo adoperando l’olio consacrato dal Grande Sacerdote.
E di olio consacrato non se ne trovò, poiché tutto era stato profanato dai pagani.
Per prepararne di nuovo ci avrebbero impiegato almeno otto giorni.
Alla fine, come nelle fiabe del C’era una volta..., trovarono in un angolo una boccetta, ancora chiusa ermeticamente dal sigillo del Grande Sacerdote, ma questa boccetta sarebbe servita per un giorno solo.
Animati dal sacro ardore della  fede e del «Dio provvederà», i Maccabei decisero di accendere il lume con l’olio sacro ed incominciare il culto.
Ed ecco il miracolo e l’olio bastò per gli interi otto giorni, che permisero, nel frattempo, di  produrre altro olio sacro.
In commemorazione di questo miracolo gli Ebrei, ancora oggi, accendono per otto giorni un lume, che ogni giorno si aggiunge a quello del giorno precedente, fino che all’ottavo giorno otto lumi in fila come soldatini, più il nono che faceva da «aiutante» per accendere gli altri, illuminano le corti notti invernali.
Qui il sette non c’è, bensì un otto, che diventa nove.
Gli otto lumi, che rappresentano i giorni, devono essere allineati.
Il nono, il shammash, l’aiutante, nella tradizione ebraica orientale non è mai allineato con gli altri, mentre in quella occidentale generalmente lo è.
Quindi apparentemente si produce un nove che può essere interpretato come un 3x3.
Questa è la festività ebraica, riconosciuta anche dall’ortodossia,  più tarda, e risale alla fine del II sec. A.C., in pieno periodo ellenista.
A questo proposito bisogna rilevare che i libri dei Maccabei non sono entrati nel canone ebraico, e sono considerati apocrifi, probabilmente poiché tutto quello che si associava all’ellenismo era considerato quasi tabù, e gli Ebrei preferirono dissociare il Libro Sacro per eccellenza dal periodo ellenista, malgrado ci racconti dei miracoli del Signore.
I Cattolici, continuatori della tradizione greco-romana, inclusero invece i primi due libri dei Maccabei nel Canone.
Hannukkà non è neanche considerata una vera e propria festa, infatti è permesso lavorare in questi giorni, e non si usa dire "Buona festa", come nelle altre occasioni simili. In breve è una festività non comandata, ovvero una commemorazione.
Più che entrata è, dunque, semi-entrata nel tardo giudaismo, ed è la versione ebraica delle feste elleniste che si festeggiavano in Siria, legate al tardo culto di Dioniso, e che erano commemorate attraverso delle processioni di fiaccole nel giorno del solstizio d'inverno.
Infatti in ebraico si chiama "la festa dei lumi", e com’era per quella ellenista, viene celebrata nei giorni più corti dell'anno, per esorcizzare il giorno a riallungarsi di nuovo.
In Siria era festeggiata attraverso gli abeti sempreverdi, che erano considerati gli alberi sacri a Dioniso.
Anche il Natale si festeggia nei giorni più corti dell'anno, attraverso gli abeti, l’albero di Dioniso (l'albero di Natale), e, similmente al Hannukà, con le candeline, che devono cacciare via il buio e invitare le giornate a riallungarsi di nuovo.
E siccome questa festa era collegata nella Siria ellenista al culto di Dioniso, non ci deve meravigliare se la nascita di Gesù si ricollega agli abeti, alle candeline, e al giorno più corto dell'anno.
Il culto di Dioniso era legato al culto di Adonis e di Attis, l’ultimo dei quali è la versione semitica del dio greco, ovvero degli dei figli, che vengono uccisi e poi rinascono, e infatti durante il solstizio d'inverno sembra che il sole stia per morire, solo per poi rinascere in un perenne rinnovamento
Il corrispondente di Dioniso, Attis, Adonis, in Egitto è Osiride, che Erodoto stesso identifica con Dioniso . E anche questo è un dio figlio che, dopo l'incesto con Iside, muore e rinasce. Dunque il Natale si ricollega direttamente alla morte e alla rinascita del sole, sia per il periodo in cui viene celebrato, che è durante i giorni più corti dell'anno, sia poiché il Cristo stesso viene paragonato al sole e questo, nelle rappresentazioni figurate del Cristianesimo, diventa il suo simbolo.
E qui ci ricolleghiamo alla morte di Gesù come Dioniso e alla sua rinascita come Apollo, che è appunto il dio del sole
Interessante notare che questa associazione di un Dioniso che precede Apollo, o che lo genera, che è lo stesso, era stata fatta anche da Erodoto, che dice: «Ultimo, avrebbe regnato sull’Egitto Oro, figlio di Osiride quello che i Greci chiamano Apollo: egli, dopo aver detronizzato Tifone [Set, nemico di Osiride e autore della sua morte], fu l’ultimo che dominò il paese. Osiride, in lingua greca, è Dioniso»
Dunque Osiride (Dioniso), condensazione di dio - figlio e dio - padre ucciso, genera Oro (Apollo) che sarà l’ultimo che dominò il paese, ovvero, come Apollo sostituì Dioniso nel dominio del regno, così Cristo rinasce come Apollo, dopo essere morto come Dioniso, e detronizza il Padre nel regno dei cieli.
Per tornare a noi, dopo questa digressione, il Hannukkà, quindi, con la sua lampada a otto, o sia pure a nove bracci, è una festa ellenista nel vero senso della parola, nella quale l’albero è stato sostituito dalla lampada a otto bracci, che solo nell’ebraismo occidentale diventano nove per l’allinearsi dell’ «aiutante» con gli altri lumi.
Da questa festa, come da ogni altra manifestazione religiosa ebraica, è stata cancellata ogni traccia della presenza di un dio-figlio, l’eroe che muore e rinasce, e che nel cristianesimo si condensa con Dio-Padre. Ma questa emerge, ciononostante, sterilizzata da ogni connotazione divina, nella figura dell'Eroe: Giuda Maccabeo, che salva il suo popolo dai malvagi.
Il Hannukkà è il massimo che l'ebraismo si poteva concedere del parallelo delle feste di morte e resurrezione dell'Oriente ellenista, senza sgarrare troppo dall'ortodossia ebraica.
Questo spiega il perché in questa festa non compare il numero sette: poiché non ha niente di ebraico, ed è stata esclusivamente una concessione alle pressioni  della cultura dell’Oriente ellenizzato, che minacciava di sommergere l’habitat isolato e iconoclasta della piccola Giudea, in eterna lotta con i suoi vicini.
Come i bambini ebrei che vivono in mezzo ai loro vicini Gentili, sentono spesso una punta d’invidia per l’albero di Natale illuminato ed addobbato dei propri amici, e io stesso ho provato, durante l’infanzia, questo sentimento, così gli abitanti della piccola e isolata Giudea si concessero questa prevaricazione, e istituirono il Hannukà, come compensazione, non prima, però, di averlo sterilizzato di ogni elemento che richiamasse alla mente i culti dei loro vicini.
Avvenne uno spostamento, e da festa del dio-sole, inaugurazione del suo nuovo cammino nei cieli, divenne inaugurazione del Tempio dopo la sua profanazione da parte dei pagani.
Tuttavia, quello che tradisce  la vera natura di questa festa sono le candeline, i lumi, che incitano a ricacciare il buio, la morte, e invitano il dio sole a rinascere e a ricominciare il suo cammino nel cielo. Non solo, ma anche il loro numero, non più sette ma otto, e dopo nove, tre volte tre.

La Stella di Davide

A questo punto non possiamo fare a meno di cercare di misurarci con quello che oggi viene percepito come il simbolo ebraico par excellance: «la stella di Davide» o la «stella a sei punte» o, come viene definita in ebraico il Maghen David, ovvero «lo scudo di Davide”.
Questo simbolo, composto da due triangoli sovrapposti, dopo essere stato considerato per molti secoli il simbolo dell’ebraismo, ha trovato persino la sua strada sulla bandiera del rinnovato stato d’Israele.
Negli scavi archeologici in Palestina non si trova niente di simile.
La Bibbia non conosceva questo simbolo. Il re Davide, al quale viene attribuito, non lo aveva mai visto, né ne aveva mai sentito parlare.
Ugualmente per quello che riguarda il periodo del Secondo Tempio.
Giudici, Re, Profeti, Maccabei, i rivoltosi contro i Romani: nessuno di loro conosceva questo simbolo.
Chiunque si fosse battuto per la libertà ebraica, fino al Medioevo, lo ha sempre fatto sotto il segno della lampada a sette bracci.
Non solo ma, anche dopo l’inizio dell’esilio, la stella di Davide non appare in nessun contesto legato all’ebraismo.
Nei numerosi scavi di sinagoghe dal IV e VI sec. D.C. appaiono solo i simboli tradizionale dello shofar, della lampada a sette bracci, dell’etrog (il cedro), e della palma.
In nessuno di essi appare mai la stella di Davide. L'unico posto dove l'ho trovata è in una sinagoga del secondo secolo d.C, a Capernaum in Galilea, e funge esclusivamente da elemento architettonico, come in molte strutture non - ebraiche precedenti, e anche molto più tarde.
Quindi possiamo asserire che, almeno fino al tardo medioevo, questo simbolo non faceva parte della sfera culturale ebraica.
Per chi sia interessato ai vari significati di questo emblema rinviamo all’ «Enciclopedia dei Simboli» della Garzanti, che riassume le varie interpretazioni, tutte però in un’atmosfera soffusa di astrazione.
Questo, comunque, è un simbolo indoeuropeo, presente nell’antico parsismo e in India .
Appare, fra l’altro, sulle mura di Gerusalemme, costruite nel XVI sec. d.C. dal sultano turco Suliman il Magnifico, come appare sulla facciata della chiesa di S. Croce a Firenze, edificata nel secolo scorso, e in entrambi i casi non lo s'intendeva certo associare all'ebraismo.
Arthur Koestler, in avanza l'ipotesi che la Stella di Davide sia stata associata all'ebraismo nel XII secolo, nel contesto del movimento messianico legato al nome di David El - Roy, un aspirante messia che aveva organizzato una rivolta armata di vaste proporzioni, che si stava espandendo dalla Cazaria, al Kurdistan e fino alla Babilonia, quando quest'ultimo fu assassinato nel sonno.
Comunque, sempre secondo Koestler:

...si suppone che lo "scudo di Davide" a sei punte, fino a quel momento considerato soprattutto motivo decorativo o simbolo magico, iniziasse la su ascesa per divenire il principale simbiolo nazionale e religioso del giudaismo. Usato per lungo tempo in alternativa al pentagramma o "sigillo di Salomone", esso venne attribuito a David in taluni scritti mistici ed etici tedeschi a partire dal tredicesimo secolo, e comparve sulla bandiera ebraica a Praga nel 1527 (La tredicesima tribù, UTET Libreria, Torino 2003, pp.106 - 8).

Il motivo psicologico per cui sia diventato, negli ultimi otto secoli, il simbolo dell'ebraismo, è per noi un mistero.
Possiamo però avanzare alcune riflessione di carattere puramente speculativo, che si riallacciano ai contenuti psicologici che abbiamo scandagliato nel presente lavoro.
Il sette era il simbolo fallico di un dio-Padre, carpito dai figli ribelli, che lo avevano fatto loro, come simbolo d'indipendenza e di libertà.

Questo simbolo continua a persistere, unico, ancora almeno fino al basso medioevo.
Gli Ebrei che si ribellarono ai Romani, volta dopo volta, prima nel 68 d.C., che portò alla distruzione finale del Tempio, e poi nella grande rivolta di Bar Kokhbà, nel 135, sotto Adriano, che portò alla distruzione finale della Giudea, avevano in mente esclusivamente la lampada a sette bracci.
Nel 614 d.C., quando i Persiani invasero la Palestina, e la presero dai Bizantini, gli Ebrei combatterono attivamente a favore degli invasori, come testimoniano i documenti dell'epoca.
A quei tempi aspettavano il Messia, che restituisse loro la libertà perduta, ma in maniera estremamente attiva. L'odio tra Ebrei e Romani, e dopo Bizantini, era il sentimento più potente che permeava l'anima ebraica.

La Iudea Capta, con la forza, andava restituita con la forza.
Ma dopo, cominciò a permeare l'anima ebraica anche un senso di abbattimento.
L'Esilio e la Diaspora, sembravano ormai delle realtà irreversibili.
Gli Ebrei impararono a credere che il loro peccato, l'antico sacrilegio contro il corpo del Dio-Padre onnipotente, non sarebbe mai più stato perdonato.
In questo stato d'animo, la psiche ebraica cercò un simbolo che riflettesse la loro condizione di soggiogati alla volontà di questo Dio-Padre intransigente, che aveva voltato la faccia e la nascondeva al suo popolo penitente.
Ed ecco che il sette, il simbolo della ribellione, fu relegato dietro le quinte, e fu adottato un simbolo, preso in prestito dai loro oppressori, per riflettere la loro nuova condizione di popolo soggiogato alla volontà del Dio-Padre.

Il doppio tre, della stella di Davide, sembrò essere il segno più adatto.
Se il sette era stato il segno della sovranità e della libertà, il sei, il doppio tre, divenne il  simbolo di un'astrazione che rifletteva le condizioni di un infinito esilio.
La Stella di Davide diventò quindi il simbolo della Diaspora, del peccato e della penitenza. Possiamo aggiungere che questo simbolo possiede anche una forte connotazione femminile, e quindi non è solo un simbolo fallico paterno, ma anche materno. Non erezione, come i sette bracci della Menorà, bensì contenitore, e come tale simbolo femminile.
Quando, alla fine del secolo scorso, il Sionismo politico dichiarò di volersi staccare da qualsiasi tradizione legata alla Diaspora, e di instaurare un regime mentale di attivismo e di lotta, non riuscì, però, a staccarsi da questo simbolo, che rifletteva il senso di colpa verso il Padre e la sua vendetta, e, in un'unica condensazione, anche quella connotazione femminile passiva addottata, almeno parzialmente, durante i lunghi secoli dell'esilio.

Ed ecco che il doppio tre, simbolo di Edom il malvagio, lo «evil empire», rappresentato dalla forza dei suoi nemici Romani e Bizantini, trovò la sua strada sulla bandiera ebraica, come sintesi di lotta, ma anche di asservimento alla volontà di un dio-Padre, che a suo tempo era stato sfidato.
Una soluzione di compromesso tra desiderio di libertà e realtà di sottomissione.
La lezione di duemila anni di esilio non poteva, ormai, più venire rimossa.
I figli d'Israele, anche se erano tornati ad un attivismo assoluto e avevano ripreso nelle loro mani la propria sorte, non se la sentivano più di sfidare il Dio-Padre ad oltranza. Mettendo sulla propria bandiera la Stella di Davide volevano dichiarare: «Siamo di nuovo indipendenti, ma questa volta non sfideremo più la volontà del Padre, sfida che ci ha portato duemila anni di esilio e di sofferenza, bensì la nostra rinnovata indipendenza sarà in simbiosi con la sua volontà».

Finalmente l'antico rito iniziatico, perennemente tentato, e alla fine risultato nell'esilio di coloro che non erano riusciti a portarlo a termine in maniera soddisfacente, trovò la propria soluzione, e riuscì, come ogni rito iniziatico, quando la generazione dei figli si identifica con quella dei padri, e avviene il compromesso, che è alla base di ogni iniziazione riuscita.
La nuova libertà dei figli d’Israele, non è più, come quella dei tempi antichi, una sfida al simbolo fallico del Padre bensì un regime di collaborazione, soluzione di un rito iniziatico che dura, ormai, da più di quattromila anni.