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Gli ultimi segnali di fumo fonte: Diario

Il cappio si stringe intorno al collo del fumatore. Ancora un anno e non sarà più possibile fumare in luoghi pubblici, uffici, bar, ristoranti, nemmeno nelle carceri. A Montecitorio le commissioni parlamentari sono ormai libere dal fumo, mentre la ricerca scientifica - Cenerentola del paese - verrà finanziata non con un aumento delle rette universitarie bensì con 20 centesimi in più per pacchetto. Al tabagista non verrà nemmeno lasciata l'illusione di farsi meno male fumando "mild" o "light", scritte che scompariranno per far posto ad avvisi di questo tenore: "Il fumo uccide", che occuperanno il 40 per cento della superficie posteriore del pacchetto.

Il fumo conclude così la sua parabola da piacere sociale a vizio privato. E se i nuovi divieti in nome della salute pubblica richiamano l'attenzione e il plauso della maggioranza, danno corso anche all'indignazione di qualche bastian contrario. E' il caso di Luigi Pintor, il cui grido di dolore si leva dalle colonne del Manifesto (16 novembre 2002, "Un fil di fumo"): "E' il fumo il più assoluto dei mali e il più turpe dei vizi? E' il pericolo pubblico numero uno, incarnato da milioni di kamikaze del tabacco che accendono centonuno miliardi di sigarette molotov all'anno, incrementando del 2,3% le entrate fiscali ma facendo strage d'innocenti?" si domanda retoricamente il nostro, che risponde: quella contro il fumo è una crociata proibizionista che finge di non vedere fattori di rischio ben più gravi per la salute fisica e mentale come i gas di scarico delle automobili e la televisione. Se questi sono totem intoccabili prendiamocela con i poveri fumatori, costretti a consumare il loro vizio in solitudine, nascondendosi dallo sguardo della nuova polizia della salute.

Il giorno dopo cataratte di lettere si riversano sulla redazione del Manifesto. Lettere per lo più di protesta scritte da non fumatori che plaudono quanto meno all'interdizione del fumo nei locali pubblici. E che spingono Pintor a una replica che suona quasi come una scusa.

Almeno sul fumo la sinistra è allineata ai tempi e discretamente coesa, nonostante i sigari di Bersani e Visco e le intemerate di Pintor. D'altronde il segnale l'ha dato D'Alema cinque anni fa quando ha dismesso le Marlboro, e soprattutto Umberto Veronesi, con le sue sortite anti tabacco quando era ministro dell'Ulivo.

Ma non è sempre stato così, anche perché la storia stessa della sinistra sembra curiosamente, e non sempre virtuosamente, intrecciarsi con quella del fumo. I padri fondatori, per cominciare, fumavano come ciminiere. "Il Capitale" confidava Marx al genero Paul Laforgue "non ripagherà nemmeno i sigari che ho fumato scrivendolo". "Ma ancora di più spendeva in fiammiferi" continua Laforgue. "Dimenticava così spesso la pipa o il sigaro che per riaccenderli ne consumava un'incredibile quantità di scatole". Non era da meno Engels, tanto convinto della funzione consolatoria e socializzante del fumo da scagliarsi contro gli ospizi di mendicità britannici che proibivano le sigarette ai poveri ospiti.

Saltando alla Rivoluzione russa, ci troviamo immersi in una nuvola di fumo che John Reed, in Dieci giorni che sconvolsero il mondo, riesce quasi a farci respirare. Palazzo Smoli, sede del Soviet di Pietrogrado, 25 ottobre 1917: "La sala era riscaldata solo dal calore soffocante dei corpi umani non lavati. Una spessa nuvola azzurra di fumo di sigarette si levava da quella fossa e restava sospesa nell'aria pesante. Ogni tanto qualcuno montava alla tribuna e pregava i compagni di non fumare. Allora tutti, compresi i fumatori, gridavano 'Non fumate, compagni!' e poi tutti continuavano".

Quella nuvola azzurra aleggerà su tutte le assemblee della sinistra almeno fino alla fine degli anni settanta. Da quel momento comincia a diradare, più per esaurimento della sinistra che del fumo. "Il fumo è un fenomeno di sinistra non tanto perché la destra non fumi" chiosa il medico del lavoro e storico della medicina Francesco Carnevale "quanto perché la destra non ha mai avuto l'abitudine di riunirsi in assemblea".

Dalla Rivoluzione russa a quella cinese la musica non cambia. "Mao, figlio di piccoli proprietari contadini, fuma le sigarette" racconta lo storico Victor Kiernan in Storia del tabacco (Marsilio, 1993) "ma ne è così dipendente che a Yenan, al termine della Lunga Marcia, coltiva personalmente il tabacco, adempiendo così all'obbligo per tutti i funzionari del partito di svolgere lavori manuali". Secondo Solzenicyn, invece, uno dei rari tratti d'umanità di Stalin, gran fumatore di pipa, era di consentire il fumo nei gulag. Per i prigionieri la sigaretta è sempre stata una grande consolazione, un'isola di godimento in un mare di merda. "Più in generale per i poveri vino a fumo sono stati a lungo visti con comprensione dalla sinistra proprio per il loro carattere consolatorio e socializzante" spiega Giovanni Berlinguer, non fumatore, medico-igienista, già ministro ombra della sanità del PCI. "Tuttavia alcuni socialisti italiani d'inizio secolo avviarono una discussione soprattutto sull'alcol e la frequentazione delle bettole da parte della classe lavoratrice, che se da un lato fruiva dell'unico piacere che le era concesso, dall'altro dissipava l'energia da riservare alla lotta politica".

Come dimenticare, poi, a proposito di simboli della sinistra, che il fratello di Giovanni, Enrico Berlinguer, era invece un fumatore accanito di sigarette, probabilmente responsabili della sua morte prematura per ictus alla fine del comizio di Padova nel 1984. Il filo delle associazioni storiche porta un'altra grande testimone della storia del PCI, Miriam Mafai, a caratterizzare le differenze di temperamento fra Berlinguer e Craxi proprio attraverso le sigarette fumate: "Erano due figure opposte, per temperamento, stile, cultura, persino per struttura fisica. Avevano in comune un solo vizio, il fumo, che gli aveva reso giallastri i polpastrelli e le unghie. Berlinguer era un accanito fumatore di Turmac, Craxi preferiva (o gli avevano consigliato) delle sottili sigarette alla menta".

Ma riprendiamo il filo della storia: in una lettera del 9 novembre 1931 dal carcere torinese, Antonio Gramsci chiede alla cognata Tania di mandargli cartine per sigarette: "Forse ti fa maraviglia che io consumi tante cartine, mentre ti ho scritto che ho ridotto di molto il consumo del tabacco; non c'è contraddizione tra i due fatti, anzi essi sono strettamente dipendenti l'uno dall'altro. Ho imparato che riducendo le cartine, cioè ritagliandole in altezza e in larghezza, si possono fare tante piccole sigarette (tre invece di una) e quindi si può fumare tre volte un pochino, ma quanto è sufficiente per togliere il bisogno. I carcerati fumano tre volte la stessa sigaretta (la fumano a sezioni) e poi utilizzano nuovamente le mozze; questa pratica mi è disgustosa e preferisco la mia soluzione che però domanda molte cartine (…). Credo che riuscirò a fumare molto poco, se non addirittura a smettere completamente fra qualche altro tempo. E' vero però che il fumare poco è legato anche al grado di intensità del lavoro intellettuale; leggo poco e penso meno, cioè non faccio che pochi sforzi intellettuali e perciò posso fumar poco. Non riesco a concentrare l'attenzione su un argomento; mi sento spappolato intellettualmente così come lo sono fisicamente".

In quegli anni di sofferenza e persecuzioni il fumo è certamente una schiavitù penosa, che però dispensa piacere, consolazione, capacità di concentrazione, forza d'animo. E nella difesa d'ufficio che Pintor fa del fumo sembrano risuonare quel mondo e quei ricordi. Fumare, per quella generazione, poteva voler dire anche antifascismo. Lo dimostra a contrario il fatto che la prima crociata contro il tabacco la fece proprio Hitler. "E' con il Nazismo che per la prima volta nel mondo moderno si instaura la dittatura del salutismo" spiega lo storico Robert Proctor, autore dello straordinario La guerra di Hitler contro il cancro (Rafaello Cortina, 2000). "Gesundheit uber alles" era il motto che forgiava la vita nel Reich. A partire dai capi. Hitler non fumava, così come Mussolini. L'asse in verità era incrinato dal debole Hirohito, che indulgeva al vizio. In Germania, dal 1933 in poi, le campagne di dissuasione dal fumo erano martellanti e riguardavano in primo luogo le donne, sia perché il fumo veniva considerata un'abitudine licenziosa, sia perché si reputava (forse non a torto) che indebolisse il potere generativo. Ciò non impediva di fumare a personaggi del rango di Herman Goring o di Eva Braun, ma farlo alla presenza del Fuhrer era vivamente sconsigliato. Nei dodici anni di regime vennero adibiti locali pubblici, ristoranti e carrozze ferroviarie per non fumatori, si producevano sigarette senza nicotina proponendo a chi voleva disassuefarsi speciali gomme da masticare, pasticche allo zenzero e prodotti specifici come "Nicotilon" e "Analeptol". Nulla di nuovo sotto il sole, insomma.

Agli inizi degli anni trenta, grazie agli studi di Fritz Lickint, era già chiaro che la nicotina sviluppava dipendenza nel fumatore e nuoceva alle coronarie. E sempre in quegli anni gli epidemiologi tedeschi sono i primi al mondo a stabilire una correlazione significativa fra fumo di sigaretta e tumore al polmone; un compito non facile, se si pensa a quanto rara fosse la malattia allora. D'altra parte il consumo di sigarette in Germania era passato dagli 8 miliardi nel 1910 ai 30 miliardi nel 1925, e i risultati si cominciavano a vedere in termini di cancri alla gola e ai polmoni. In un primo tempo la comunità medica imputa l'epidemia al diffondersi delle automobili e alle asfaltature stradali, ma ben presto si individua il colpevole confrontando il numero di neoplasie in fumatori e non fumatori. Dagli studi di Lickint, e poi di Franz Muller e di Schainer e Schoniger emerge che i fumatori accaniti rischiano dalle sei alle dieci volte in più di contrarre la malattia rispetto ai non fumatori. Karl Astel, antisemita, igienista della razza e propugnatore dell'eutanasia per i malati psichiatrici, diventa il fervente direttore dell'Istituto per la ricerca sui rischi del tabacco di Jena, e anche grazie ai suoi studi si individua nel catrame il primo responsabile del tumore polmonare. Intanto Hitler regala un orologio da tasca d'oro ai gerarchi che smettono di fumare e in tutto il paese si aprono centri per aiutare a smettere. Non stupisce quindi che una delle forme di resistenza sotterranea al regime hitleriano presso i giovani fosse, oltre alla passione per la musica jazz e lo swing, il fumo smodato durante feste clandestine, soprattutto da parte delle donne.

Il fumo profuma d'America e di libertà. In risposta ai razionamenti della guerra, il consumo di sigarette esplode di nuovo in tutta Europa alla fine della guerra. La pelle di Curzio Malaparte e altri romanzi raccontano quale funzione di vera e propria moneta di scambio rappresenti il pacchetto di sigarette nei maneggi fra le popolazioni e i liberatori americani.

Pochi anni dopo, la nube azzurrognola riempie le caves parigine, e la gauloise che pende dal labbro di Sartre, Camus e Juliette Greco è il signacolo dell'esistenzialismo contro i filistei di ogni risma, salutisti compresi. La sinistra adotta il nuovo stile innestandolo sul tronco macho dei sigari Cohiba che spuntano come missili dalla bocca del Che e di Fidel. Risultato: una cappa impenetrabile aleggia sugli attivi di sezione e nelle redazioni della sinistra.

Negli stessi anni scienziati anglo americani conducono nuovi studi epidemiologici e usurpano ai predecessori tedeschi il primato in questo campo. Al punto che Richard Doll, l'epidemiologo inglese cui erroneamente le storie della medicina attribuiscono il merito di aver scoperto il legame tra fumo e tumore al polmone, negherà sempre di aver letto le ricerche condotte durante il Nazismo. Nel 1964 il surgeon general statunitense lancia l'allarme: il fumo non può più essere considerato un vizio privato. E' una gravissima epidemia che affligge la sanità pubblica, è la prima causa di morti evitabili non solo per tumori ma anche per altre malattie respiratorie e cardiache. Qualche dato chiarisce l'entità del danno: se nel 1930 il tasso di cancri polmonari era di 5 per 100mila, nel 1990 a 76 per 100mila. Ma è appunto negli anni sessanta che si verifica il picco dei consumi, almeno negli States: a inizio secolo si fumavano 54 sigarette all'anno procapite, nel 1963 se ne fumavano 4345 e nel 1998 2261. La curva dei consumi, quindi, è in discesa da quarant'anni, ma quella dei tumori segue con un ritardo di venti-trent'anni.

Morale: non si poteva non sapere. Eppure la sinistra medica ed epidemiologica italiana (della destra e dell'establishment non vale nemmeno la pena parlare) non si strappa le vesti. Perché? "Continua a considerare il fumo come un'abitudine che attiene alla sfera personale" spiega Francesco Carnevale, che definisce vergognoso il ritardo su questa emergenza da parte della comunità scientifica italiana. Personaggi come Alfredo Maccaccaro e Laura Conti, iniziatori dell'epidemiologia ambientale e dell'ecologia in Italia, si concentrano su altro.

La ragione è spiegata da Benedetto Terracini, decano degli epidemiologi italiani e direttore della rivista Epidemiologia e Prevenzione, fondata da Maccaccaro: "Lo sbaglio fu di leggere il fumo in termini di abitudini personali e non di induzione di comportamenti tramite condizionamenti fisici (la nicotina) e culturali (il cinema, la pubblicità). Sfuggivano quelli che erano gli interessi industriali in gioco. Poi c'erano anche ragioni contingenti: agli operai che tossivano o che pisciavano sangue per il cancro alla vescica come all'IPCA di Cirié (dove si producevano amine aromatiche e coloranti), il medico di fabbrica suggeriva di fumare meno e bere latte. In un contesto del genere la ricerca e l'impegno si concentravano sugli inquinanti ambientali e sui tossici industriali".

Dall'inizio degli anni ottanta le cose cambiano radicalmente. Le nuove leve dell'epidemiologia italiana, di ritorno da esperienze di studio all'estero, comprendono in pieno la gravità della situazione e si pongono alla testa della ricerca sul fumo. A sinistra cominciano a levarsi le proteste dei non fumatori: Giovanni Berlinguer, a metà degli anni ottanta, riesce a far approvare nello statuto del PCI il divieto di fumo nei Congressi. "Come igienista conoscevo già da anni i problemi di salute legati al fumo, ma vedevo anche un problema di democrazia, visto che il fumo rappresentava un forte ostacolo alla partecipazione delle donne alle riunioni" ricorda Berlinguer.

Scazzi epocali avvenivano nella redazione dell'Unità, dove nelle assemblee degli anni ottanta la questione fumo diventa la principale vertenza sindacale. "Per sanare la guerriglia fra fumatori e non fumatori che dovevano condividere gli stessi spazi" ricorda la giornalista e sindacalista dell'Unità Silvia Garambois (fumatrice) "si decide, dopo assemblee infuocate, di creare stanzette separate per mezzo di pareti mobili. Da quel momento la conflittualità diminuisce, nonostante le mai sopite scaramucce quando un fumatore si avventurava con la brace accesa nello spazio non fumatori". L'immagine del giornalista con il bicchiere di scotch e il mozzicone a fianco della macchina per scrivere è dura a morire; alcuni redattori dell'Unità, privati di questi indispensabili attrezzi di lavoro, minacciano di starsene a casa, ma poi s'impara a convivere.


D'un tratto ci si rende conto che dietro le sigarette ci sono avidissime multinazionali che fanno il bello e il cattivo tempo alla Casa Bianca, e comincia a diffondersi l'idea che si possono chiedere risarcimenti miliardari per un tumore provocato dalle "bionde". Ed è proprio grazie a uno di questi megaprocessi, conclusosi con un rimborso di 6 miliardi di dollari per lo Stato del Minnesota e 469 milioni di dollari per due assicurazioni sanitarie locali, che la Philip Morris è costretta a mettere su internet tutte le carte raccolte durante la istruttoria. Sono 32 milioni di pagine contenute nel sito http://www.pmdocs.com/ che mettono sotto accusa migliaia di mestatori, anche italiani, anche ricercatori, anche di sinistra. La storia poco edificante ha inizio nel 1993, quando l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione (IARC) entra nella fase operativa di una ricerca sul fumo passivo, con molti epidemiologi italiani nello staff. E' uno snodo importantissimo delle vicende legate al fumo: un anno prima l'Environmental Protection Agency americana aveva già dato un giro di vite sul fumo passivo nei luoghi di lavoro, considerandolo di fatto cancerogeno. Se lo IARC confermava la dannosità del fumo di seconda mano, l'Europa avrebbe seguito l'America in provvedimenti restrittivi. Philip Morris si mette subito all'opera mettendo in campo società di comunicazione e di PR con i seguenti obiettivi: cercare di ottenere informazioni in progress sullo studio e ritardarne il più possibile la pubblicazione, influenzarne i risultati anche con contatti diretti con i ricercatori e, in caso di risultati positivi, mettere in dubbio lo studio e le sue basi metodologiche.

Per questa strategia vengono stipulati contratti milionari con agenzie di PR. Per l'Italia la prescelta è SCR Associati di Toni Muzi Falconi, che tra i vari consulenti si serve di Giuseppe Lojacono, economista sanitario molto vicino agli ambienti epidemiologici essendo stato per molti anni direttore responsabile di Epidemiologia e Prevenzione. Con una serie di viaggi a Lione gli insider riescono a ottenere informazioni sulla ricerca dai diretti interessati e a comunicarli alla casa madre, pronta a sfornare comunicati stampa di segno opposto. Non solo: per distogliere l'attenzione dal fumo passivo la Philip Morris finanzia convegni sull'inquinamento indoor. Ci cascano un po' tutti, dalle associazioni ecologiste ai medici di sinistra che, per formazione culturale, tendono a concentrarsi sui fattori di rischio ambientale. La multinazionale è generosa anche con quelle fondazioni specializzate nel seminare lo scetticismo sui risultati degli studi epidemiologici. In questo campo si distingue Steven Milloy, fondatore del Cato Institute, che si prefigge di stigmatizzare la "junk science", la scienza spazzatura, e che nel 1995 pubblica il libro Science without sense, dedicato proprio a smontare le argomentazioni a favore della nocività del fumo passivo. Libro questo sì spazzatura, pubblicato nel 2002 anche in italiano con il titolo "Fuma pure" dalla libertaria Stampa Alternativa di Marcello Baraghini. In perfetto stile bypartisan il libro viene prefato dal liberista Antonio Martino, fumatore di sigaro, che strologa contro la campagna antifumo che gli ultimi statalisti starebbero conducendo ai danni "delle nostre libertà". Nel suo editoriale sul Manifesto Pintor è più ironico ma l'aria che tira è la stessa.

Lo studio dello IARC vede la pubblicazione nel 1998 e conferma che il fumo passivo rappresenta un rischio aggiuntivo di cancro. Un rischio piccolo, per la verità, quantificabile in un aumento rispetto a chi non è esposto del 16%, ma quanto basta per dare il via a nuove leggi e campagne antifumo. L'Organizzazione mondiale della sanità, anch'essa infiltrata negli anni precedenti da "agenti" della Philip Morris, decide che la guerra vale la pena di essere combattuta. Il direttore generale Gro Harlem Brundtland dice che è arrivato il tempo di un trattato internazionale di lotta al tabagismo, nuove tasse e limitazioni draconiane alla pubblicità. Un Atlante del fumo, appena pubblicato, misura l'estensione del tabagismo paese per paese, costituendo la base per gli interventi futuri. "Metà dei fumatori muore di tumore o infarto" spiega la Brundtland. "Metà di queste morti avvengono tra i 35 e i 69 anni, con una media di 25 anni di vita persi. Ma quello che preoccupa di più è l'epidemia fra le donne e gli adolescenti dei paesi in via di sviluppo, che in questi anni sono fatti oggetto di aggressive campagne di marketing pro fumo".

Il più arrabbiato è Noam Chomskj, che osserva come contemporaneamente alla guerra contro la droga voluta da Bush padre gli Stati Uniti, con il beneplacito del Gatt, costringono il Terzo Mondo a importare tabacco yankee, magari, come è successo alcuni anni fa, nella cornice di aiuti alimentari.

Di una cosa però va dato atto a Pintor: la buona novella antitabacco che si va diffondendo può assumere il volto torvo del persecutore, o anche quello stolido dell'idiota. Alcuni bioeticisti, per esempio, propongono di escludere dalle liste di attesa per il trapianto polmonare i fumatori. Se lo sono voluti, è l'argomentazione. Tre anni fa i Codacons, invece, hanno chiesto l'immediato ritiro dalle edicole del numero 458 di Tex ("Sulla pista di Fort Apache) per "istigazione al fumo e all'alcol". In effetti Tex, in un dialogo con Laredo, dice che non c'è niente di meglio di una sigaretta per distendere i nervi. Da quella volta Tex ha cominciato a fumare sempre meno, è diventato sempre più nervoso, e quando gli capita dà boccate svogliate, sembra non provare più l'intimo, disperante piacere del fumatore. Diceva bene Oscar Wilde: "la sigaretta è la forma più perfetta di un piacere perfetto: è breve, intensa e lascia insoddisfatti".

E insoddisfattissimo, per tutt'altri motivi, è il critico gastronomico Edoardo Raspelli, che non si darà pace fino a quando non avranno bandito tutti i fumatori dai ristoranti. Al punto che per le sue recensioni culinarie ormai si porta appresso un marchingegno che misura la quantità di polveri, benzopirene e altre schifezze generate dalle sigarette. "Che piacere è quella fetta di culatello di Zibello o il gambero di Anzio e di Viareggio sapendo che li state mangiando in mezzo a una nuvola di veleno?".

E' arrivato, caro Pintor, il momento della ritirata. E poco importa a questo mondo che "senza quella sigaretta sulle labbra Humphrey Bogart sarebbe morto lo stesso e non sarebbe stato Humphrey Bogart". Fumiamoci sopra, di nascosto.


Luca Carra