Non solo l'Italia, ma anche
l'Olanda è in recessione.
Germania e Francia sono ferme.
Nei sette anni da che è stata introdotta la moneta
comune europea, la crescita del PIL pro-capite europeo
è stata di un esangue 1% annuo, la metà
di USA e Gran Bretagna; e la disoccupazione UE è
al 9 %, contro il 4,5 % britannico.
Che l'euro sia almeno una causa di questa paralisi, è
un sospetto che albeggia ormai anche nelle sedi ufficiali.
Uno studio della HSBC, la più grossa banca del
mondo, ha cominciato ad affrontare il tema.
Un tema-tabù.
Difatti lo studio della HSBC lo avvolge dapprima nel
linguaggio dell'economicamente corretto liberista.
L'Europa declina perché "non ha fatto le riforme",
ossia non ha reso abbastanza "flessibile" il
lavoro e il suo "mercato".
L'efficienza con cui il capitale e il lavoro vengono utilizzati
è calata negli ultimi anni: sia a causa delle "rigidità
del mercato dei capitali", sia per le alte tassazioni,
sia (finalmente una verità meno conformista) "a
causa di errati investimenti di capitale durante la bolla
borsistica dei tardi anni '90".
Ma naturalmente, anche a causa dell'insufficienza della
ricerca e sviluppo.
La crescita demografica zero viene parimenti additata
come causa
La forza-lavoro europea passerà dai 205 milioni
del 2005 a 155 milioni fra 40 anni. Sarà in parte
compensata da un flusso di immigranti inaudito, che andranno
però poi a godersi nei loro paesi le pensioni guadagnate
da noi: con un'emorragia di capitali mai vista.
Aggraverà il fenomeno il declino delle entrate
fiscali statali dovuto alla minore popolazione produttiva,
e l'alterarsi della struttura di risparmio della popolazione
anziana.
Tutto ciò è già abbastanza tragico.
Ma l'euro sta forse alleviando la tragedia?
In un vecchio studio (1961) dell'economista tedesco Robert
Mundell ("A theory of optimum currency area",
venivano indicati una serie di criteri che un'unione monetaria
avrebbe dovuto soddisfare.
1) L'assenza di "shock asimmetrici" frequenti
e su larga scala.In realtà ne abbiamo sofferti
almeno due e giganteschi: la riunificazione delle Germanie
(l'Ovest produttivo e l'Est improduttivo) e il collasso
dell'URSS, con il crollo delle esportazioni e importazioni
dell'Unione Sovietica. Nell'ultimo caso, ne soffrì
duramente la Finlandia. Ma la Finlandia ne avrebbe sofferto
molto più duramente "se non avesse potuto
svalutare la sua moneta", ossia se avesse avuto sul
collo il rigido peso dell'euro.
2) L'alta mobilità dei fattori di produzione. Quando
lo "shock" colpisce un Paese europeo più
di altri ("asimmetricamente"), nell'impossibilità
di compensare la crisi con i tassi di cambio (svalutazione
della propria divisa), a dover diventare flessibili sono
"il lavoro" (che dovrebbe emigrare nelle zone
più produttive), il capitale e i prodotti. Le barriere
linguistiche hanno impedito questa "soluzione".
3) L'unione politica. Essendo la moneta un'espressione
della sovranità nazionale, il successo dell'euro
(diceva Mundell) dipenderà in ultima analisi dalla
capacità dell'Europa di diventare una vera unità
politica. In quegli stessi anni, Padoa Schioppa diceva
di peggio: proprio il susseguirsi di "shock asimmetrici"
(che lui auspicava come effetto della moneta unica) avrebbero
obbligato gli Stati membri a cedere l'intera sovranità
residua all'eurocrazia, per salvarsi dal disastro (desiderato
dal Padoa Schioppa come forza unificatrice).
E' evidente che l'euro non soddisfa questi criteri.
D'altra parte, non ha ancora provocato i disastri sperati
da Padoa Schioppa; le società sotto il peso dell'euro
si sono dimostrate più stabili del previsto.
Per esempio la divaricazione d'inflazione e crescita tra
paesi "forti" e "deboli" non sono
diventate così grandi come ci si aspettava sotto
un tasso d'interesse eguale per tutti.
Tuttavia questo divario si sta ampliando, e la natura
del divario stesso è stata modificata dall'euro.
A causa del tasso d'interesse unico, che è "troppo
basso" per alcuni Paesi (dove denaro a basso costo
surriscalda l'economia) e troppo alto per altri, dove
il costo del denaro eccessivo raffredda l'economia.
La Spagna è fra i paesi che hanno goduto del tasso
unico europeo, ossia del denaro facile: negli ultimi 7
anni il PIL spagnolo pro capite è cresciuto del
3,8 % contro l'1,3 % della Germania, l'1,5 % dell'Olanda
e l'1,7 % dell'Italia (il nostro Paese ha conosciuto già
tre recessioni nel settennio).
Ma in Spagna, l'economia surriscaldata dal tasso reale
d'interesse basso ha provocato bolle speculative, l'esplosione
dei prezzi immobiliari (più 145 % in sette anni)
e un deficit crescente delle partite correnti.
Lo stesso tasso d'interesse comune europeo è troppo
alto per la Germania, dove l'inflazione è più
bassa della media, e ne ha gelato l'economia.
Eppure la Germania ha aumentato con forza le sue esportazioni;
ma è la domanda interna a restare esigua.
Un tempo, prima dell'euro, la crescita dell'export provocava
anche l'aumento della domanda interna; ora non più.
La Germania è in deflazione da euro, come Spagna
e Irlanda (dove le case sono rincarate del 192 %) sono
in inflazione da euro.
La "taglia unica" e obbligatoria imposta dall'euro
si traduce, per l'Italia, in un tasso reale rovinosamente
aumentato (il costo del denaro da noi si è apprezzato
del 20 %), il che spiega le nostre recessioni senza uscita.
In Germania, data la bassa inflazione locale, il tasso
comune europeo si è tradotto in una maggiore competitività
relativa rispetto agli altri paesi EU, ed ecco spiegato
il boom tedesco dell'export; per il motivo uguale e contrario,
la Spagna ha perso competitività, sicché
il suo boom ha in sé le radici della rovina.
Dall'entrata dell'euro, la Germania ha visto crescere
le sue esportazioni del 55 %, l'intera UE del 35 % e l'Italia
solo dell'8 %.
Avremmo bisogno di far calare drammaticamente il costo
del denaro; invece l'euro ce l'ha apprezzato in modo rovinoso.
Germania e Italia dovrebbero ridurre parecchio l'imposizione
fiscale, per dare fiato ai consumi interni; invece, poiché
la crescita bassa ha accresciuto il deficit pubblico,
Italia e Germania sono premute più di altri paesi
dalla Banca Centrale europea alla "austerità
fiscale".
Ossia, l'UE ci obbliga a prendere le misure contrarie
a quelle necessarie, e proprio quelle che rendono cronico
il nostro declino.
E la severità fiscale che ci impone l'eurocrazia
non ci serve nemmeno ad avvicinarci ai criteri di Maastricht:
quando un'economia è debole ed esangue come la
nostra, è inevitabile che il debito pubblico cresca.
I rincari generalizzati da euro hanno colpito dovunque,
ma in Italia di più.
Da noi, i consumatori pospongono gli acquisti importanti,
aggravando la depressione economica.
L'Italia è, secondo la HSBC, il grande perdente:
anche perchè le sue produzioni (tessili, manufatturiere)
sono le più esposte alla competizione cinese.
Non abbiamo il dubbio vantaggio della Germania, dove la
bassa inflazione interna almeno stimola l'export; noi
abbiamo un'inflazione interna alta; e abbiamo avuto, unici,
aumenti salariali (anche se l'italiano non li ha davvero
visti) che rincarano il nostro costo del lavoro.
Tutti i danni da moneta "forte" ma con "potere
d'acquisto basso" si sono accumulati su di noi; abbiamo
la recessione e, insieme, un'inflazione media superiore
a quella europea.
Ma anche la Germania soffre.
Di fronte al pericolo di deflazione tedesca (un'economia
che pesa da sola un terzo di quella europea) la Banca
Centrale ha annunciato che non agirà.
"La politica della moneta unica della Banca Centrale
europea non può reagire ad ogni caduta di prezzi
di un singolo bene o di una regione o città".
Sic.
Entro cinque anni, la Germania ha 60 probabilità
su cento di cadere nella deflazione, l'Olanda 55 probabilità
su cento.
A quel punto, anche se la Banca Centrale europea riducesse
i tassi a zero, la Germania non ne avrebbe alcun vantaggio
(il costo reale del denaro in deflazione è sempre
eccessivo), mentre le altre economie subirebbero bolle
e inflazione.
E poiché i poteri della Banca Centrale europea
non sono sostenuti da una politica fiscale autonoma
al contrario delle Banche Centrali di USA, Giappone e
Gran Bretagna anche "stampare moneta"
per uscire dalla deflazione le è vietato.
All'Italia, che ricade continuamente nelle sue recessioni,
viene consigliato di "bloccare con fermezza costi
e inflazione".
Ma nulla viene raccomandato per scongiurare l'aggravarsi
del deficit pubblico, che è inevitabile se l'economia
non cresce, per quante "austerità" vengano
imposte.
L'impegno della Banca Centrale europea alla "stabilità
dei prezzi" è, secondo la HSBC, irrealistico:
fu stabilito quando l'inflazione europea era dell'1%;
oggi tutto è cambiato.
Sarebbe meglio lasciasse un margine del 2-3 %.
L'inflessibilità in questo campo "non lascia
margini ad errori": spinge la Germania in deflazione,
e obbliga le economie più deboli a premere la leva
fiscale, il che peggiora la loro situazione.
Ma la Banca Centrale europea, dura, rifiuta ogni proposta
di allentamento dei suoi sacri principi.
A questo punto, si pone la domanda: conviene uscire dall'euro?
E cosa accadrebbe?
Lo studio della HSBC esamina il caso storico del 1992:
l'uscita della sterlina non dall'euro (che non c'era),
ma dal "serpente monetario europeo", il sistema
di cambi fissi precedenti.
La sterlina si svalutò entro un mese del 10% sul
marco tedesco; e la caduta fu accompagnata dal dimezzamento
del tasso d'interesse: dal 12 % al 6 %.
Tutti gli esperti predissero che la svalutazione avrebbe
seriamente danneggiato l'economia britannica, producendo
inflazione e aumentato costo del debito (per il rincaro
degli interessi sui Buoni del Tesoro in sterline).
"Ciò che avvenne è esattamente il contrario";
dice la HSBC.
Le esportazioni britanniche crebbero di un 5 % in più
rispetto alle importazioni negli anni seguenti.
Per l'Italia, l'uscita dall'euro e l'emissione di una
"nuova Lira" avrebbe lo stesso significato:
svalutazione competitiva, e riduzione dei tassi d'interesse
(costo del denaro) a breve, anche se qui lo spazio di
manovra non è alto, dato che il tasso europeo è
già un modesto 2 %.
Ciò provocherebbe una maggiore spesa interna, accrescendo
il PIL italiano: in modo che la HSBC calcola come "sostanziale".
Ossia pari al 2% dal secondo anno dall'introduzione della
"nuova Lira".
Altro vantaggio: i BOT italiani sarebbero ridenominati.
Non più nel "forte" euro (moneta su cui
non abbiamo alcun potere), ma nella "debole"
Lira (su cui avremmo un potere sovrano).
Il che equivale ad un ripudio parziale del debito (e non
sarebbe un male).
D'altro canto, la storia delle svalutazioni italiane dice
che esse non hanno portato a un durevole aumento della
competitività, perché salari e prezzi sono
stati sempre troppo lesti a salire, provocando inflazione.
Il rendimento dei BOT italiani dovrebbe essere molto elevato,
e ciò danneggerebbe le finanze pubbliche.
In teoria.
Perché in pratica, lo Stato s'indebiterebbe con
i suoi cittadini, pescando nel vasto serbatoio del risparmio
delle famiglie; e i cittadini, non "investitori esteri",
sarebbero i beneficiari dei più alti frutti.
L'italiano medio ricorda il periodo relativamente felice
in cui i BOT gli rendevano il 10%.
Per contro, poiché l'introduzione della "nuova
Lira" richiederebbe una preparazione (non potrebbe
essere improvvisa), gli "investitori esteri"
avrebbero il tempo di vendere "attivi" italiani
(di prossima svalutazione) e cercherebbero di accumulare
"passivi" in Italia (anche i passivi si svaluterebbero).
La Borsa italiana non ne avrebbe giovamento: ma vi nuotano
i pescecani che sappiamo, non gli italiani normali.
Per questi, l'effetto avverso sulle azioni sarebbe più
che compensato dalla rapida crescita del PIL (anche se
di corta durata).
La crescita a breve darebbe respiro per le "riforme"
del capitalismo mercantile egemone, "flessibilità"
del lavoro e varie deregulation.
Ma giustamente, la HSBC (conosce i nostri politici) prevede
che quel breve respiro indurrebbe piuttosto a rimandare
le riforme.
Ma l'inconveniente peggiore sta altrove.
L'uscita dall'euro (forte) sarebbe difficile per un Paese
che adottasse, come l'Italia, una "nuova Lira"
debole.
L'Italia dovrebbe chiudere i suoi confini al "libero
flusso di capitali" e costringere cittadini e stranieri
a scambiare i loro euro per le "nuove Lire".
Ma i più si terrebbero i loro euro sotto il materasso,
o li porterebbero comunque all'estero.
Il che obbligherebbe a mantenere per un lungo periodo
il controllo sui cambi, isolando ancor più l'Italia
dall'Europa.
I contratti non potrebbero essere realmente ridenominati
in Lire; i contraenti preferiranno mantenerli in euro,
provocando un doppio regime di prezzi.
Ma tutti questi effetti negativi si basano su una supposizione:
che l'uscita dell'Italia dall'euro non modifichi il regime
e il peso dell'euro stesso.
Che, senza l'Italia, l'euro continuerà a funzionare
come prima.
Ed è una supposizione valida, ma fino a un certo
punto.
Poniamo che, poi, ad uscire dall'euro sia la Germania,
la più grande potenza economica dell'Unione.
Alla Germania sarebbe ben più facile ridenominare
la sua economia in "nuovi Marchi" (forti, rispetto
all'euro).
E la riconquistata sovranità monetaria avrebbe
per la Germania vantaggi assai maggiori.
Potrebbe fissare il tasso d'interesse primario (costo
del denaro) a livelli più bassi di quelli cui oggi
è obbligata, e più utili per la propria
ripresa; potrebbe "stampare moneta" per tirarsi
fuori dalla deflazione attuale; potrebbe coniugare le
sue sovrane politiche monetarie con politiche fiscali
opportune.
L'Olanda, che soffre degli stessi mali da euro, potrebbe
seguire l'esempio.
A quel punto, anche l'Italia non avrebbe più gli
svantaggi previsti dal passaggio dall'euro alla Lira:
perché l'euro di fatto, semplicemente, non esisterebbe
più senza Germania e Olanda.
Si può fare. Può convenire.
Anzi, dice la HSBC "più persiste la stagnazione
europea" dovuta all'euro, "più l'incentivo
ad uscirne diventa maggiore".