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Analizzando il voto europeo. Intervista al sociologo Domenico Fruncillo

Astensionismo tendenza inevitabile? Vittorio Bonanni / Liberazione 20 giugno 2004

 

In libreria il suo saggio "Urna del silenzio", sulla crescente disaffezione al voto nel nostro paese. Responsabile, la trasformazione dei partiti di massa e il loro scollamento dai cittadini

Domenico Fruncillo è ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza della Politica dell'Università di Salerno. Ha pubblicato recentemente, in collaborazione con il Centro per la Riforma dello Stato, un libro, "Urna del silenzio" (Ediesse, pp. 220, euro 10) che si occupa di uno dei problemi che mina la credibilità delle moderne democrazie, ovvero l'astensionismo. A pochi giorni dalle elezioni lo abbiamo intervistato sui motivi del fenomeno.

Dottor Fruncillo, quando si parla di astensionismo non si può non pensare alle elezioni europee, che, in un quadro generale di disaffezione al voto, continuano ad essere caratterizzate da una bassissima partecipazione. Secondo lei, quali sono le cause?

Le elezioni europee sono avvertite dalla gente come elezioni di secondo ordine rispetto alle elezioni politiche per il rinnovo dei parlamenti o per le presidenziali, come accade in Francia. Ovviamente questo è ancora più vero per il Parlamento europeo, cioè per un'assemblea che ha scarsissimi poteri reali, perché, come tutti sappiamo - e lo sanno anche i cittadini - i poteri reali sono altrove, nella Commissione europea, nel Consiglio dei ministri, mentre l'assemblea di Strasburgo non ha una reale incidenza sulle politiche. In Italia la partecipazione elettorale è più alta che altrove perché da noi è più marcata in generale rispetto ad altri paesi.

Tornando all'Italia, quali sono secondo lei le ragioni di un'affluenza che comunque rimane più alta che negli altri paesi?

E' vero, in Italia la partecipazione elettorale è più alta che altrove. Tuttavia, se osserviamo nel corso del tempo l'evoluzione dei livelli di partecipazione, dobbiamo esprimere una certa preoccupazione. Dal 1976 al 2001 abbiamo registrato un calo del 12%, con sei milioni e mezzo di persone in più che si sono astenute. Non sono poche. E' un dato molto rilevante in assoluto, tenendo conto che la tendenza si conforma al trend generale e soprattutto che nell'ultimo decennio c'è stata un'accelerazione del fenomeno dell'astensione che in qualche modo ha anche ridotto il vantaggio che il nostro paese aveva sulle altre democrazie europee. In ogni caso la partecipazione elettorale è un sintomo di fiducia nelle istituzioni, che in Italia risulta essere da sempre molto più bassa rispetto ad altri regimi democratici.

Non le sembra un paradosso, visto che in Italia si continua a votare di più?

Sembrerebbe infatti un doppio paradosso, spiegato però con il fatto che in Italia c'è stato un forte radicamento dei partiti di massa che sollecitava la partecipazione. I grandi partiti, attraverso i loro meccanismi di socializzazione, sollecitavano la partecipazione al voto, sia agendo sul dovere civico sia migliorando il senso di efficacia dei cittadini. E lo miglioravano in due sensi: da un lato, il cittadino che veniva coinvolto nei partiti aveva una maggiore capacità di influenzare e partecipare alle decisioni politiche. Dall'altro, perché tenendosi più prossimo ai rappresentanti politici aveva una maggiore capacità di permeare il potere politico. Negli ultimi anni invece i partiti hanno allentato la propria presa sulla società. Che, a sua volta, tende ad esprimersi sempre meno attraverso questi e più in altre forme di carattere associativo.

Come si può invertire questa tendenza al non voto?

La sfida sarebbe questa: pensare ad alcuni soggetti collettivi in grado di migliorare il senso di partecipazione della gente. Cioè in grado di dare al cittadino la sensazione di poter realmente incidere sui processi politici, in primo luogo proprio attraverso il voto. Poi vi sono altri meccanismi di partecipazione che funzionano come effetto di diffusione.

Per esempio?

Per esempio sono molto poche le persone che partecipano alle manifestazioni per la pace o di protesta contro la liberalizzazione del mercato del lavoro e poi non vanno a votare. mentre sono molto più numerose le persone che non partecipano a manifestazioni di alcun genere, ritirandosi dall'arena politica e quindi anche dall'arena elettorale.

C'è il rischio che una parte della popolazione, quella più emarginata, non si senta più rappresentata e dunque non vada a votare?

In America il crollo della partecipazione elettorale avviene a cavallo tra la fine del XIX° secolo e l'inizio del XX°, in coincidenza con la crisi dei partiti di massa. E neanche a farlo apposta anche là questa crisi coincide con una fortissima polemica antipartitocratica. Come conseguenza, si ha un'emarginazione sempre più evidente delle classi sociali di riferimento di quei partiti, i quali modificano la loro proposta politica e l'atteggiamento nei confronti degli elettori. La scommessa sarebbe dunque di evitare che questo avvenga anche in Italia. Anche perché mentre in America, come si sa, spesso si pone enfasi nei confronti di una società civile molto ricca e capace di inventare continuamente nuovi meccanismi di partecipazione, in Italia tutto questo trova molti più ostacoli. Da noi potrebbe dunque accadere qualcosa di molto più grave. Ossia, un totale distacco tra ceti sociali meno abbienti e partiti, con conseguente auto-esclusione dei primi dall'arena elettorale, che nel nostro paese significa uscire "tout court" dall'arena politica. Un rischio che va assolutamente evitato.