I . Né
eletti, né elettori.
Per
quanto già molte volte, sia nelle nostre conferenze come sui
nostri giornali ed opuscoli, abbiamo fino a sazietà risposto
e dimostrato perché noi anarchici non dobbiamo essere né eletti
né elettori, pur tuttavia i vecchi pregiudizi che annebbiano
la mente di gran parte dei lavoratori, l’arte subdola di
cui sono maestri i politicanti di ogni colore, ci mettono sempre
nella condizione di dovere difenderci da attacchi, ora apparentemente
benevoli, ora addirittura vili e triviali, coi quali lo studio
degli illusi o degli intriganti cercano di menomare la propaganda
nostra, affinchè non sfugga dalla loro tutela il gregge elettorale,
di cui essi hanno bisogno per salire le comode e lucrose scale
del potere.
E
lo scopo principale per cui questi uomini tanto si affannano,
intrigano, corrompono, intimidiscono è per raggiungere il posto
privilegiato di legislatori, mediante il quale essi possono non
già rendersi interpreti della volontà di chi li elesse a deputati
; ma imporre la propria e incanalare le risorse e le attività
di un popolo a loro beneficio e della classe cui appartengono.
Questa
è una verità troppo vecchia e resa fin troppo evidente dai fatti
di tutti i giorni.
Nessuno
aspirerebbe al potere se questo non procacciasse dei vantaggi,
dei privilegi morali, politici ed economici. Quindi il potere
è per sua natura ingiusto e corruttore.
Ma
oltre a questa elementarissima considerazione che non può sfuggire
neppure ai più bonari osservatori, ne dobbiamo fare altre ben
più importanti e che sono precisamente quelle che ci fanno essere
dei ferventi propagandisti dell’astensionismo nelle elezioni
politiche ed amministrative.
Il
nostro atteggiamento e le ragioni per cui adottiamo questa linea
di condotta diversificano assai dagli altri partiti o rivoluzionari
o reazionari che accettano l’astensionismo, come ad esempio
i mazziniani ed i clericali intransigenti.
Noi
non siamo astensionisti in forza di qualche pregiudiziale o perché
il potere invece di avere una forma democratica repubblicana l’ha
borghese e monarchica, oppure perché non è schiettamente clericale
o papalina ; ma perché noi siamo avversi ad ogni forma di potere
costituito, perché ogni potere costituito rappresenta una sopraffazione,
una violenza, un’ingiustizia.
Comprendiamo
che i mali sociali si eliminano eliminando le cause che li generano,
quindi logicamente siamo avversi allo Stato, qualunque sia la
sua forma, perché questo rappresenta un tiranno che sta sul collo
dei cittadini ; un grande parassita dalle mille branche che sa
tutto assimilarsi, tutto carpire senza nulla dare.
Comprendiamo
che accettare per principio che altri pensino per noi, studino
per noi, facciano per noi è un condannarci all’inattività,
è rinunciare alla nostra indipendenza, è lasciarci atrofizzare
lo spirito d’iniziativa sia nel campo del pensiero che dell’azione.
Un
uomo, un popolo è forte, è capace di sostenere efficacemente la
lotta per la vita, ed anzi riesce a trionfare sulle difficoltà
che gli si parano innanzi, a misura dello spirito d’indipendenza
e d’iniziativa di cui è animato.
Invece
la tattica elezionistica abitua gli uomini ed i popoli alla passività,
tutto si limita a fare la fatica di eleggersi un rappresentante,
ad accentrare così in poche mani il potere e quindi l’avvenire
di un’intera nazione.
Perciò
noi anarchici siamo convinti che la massima indipendenza sia dell’individuo,
come di ogni singola collettività umana, sia una condizione indispensabile
di rapido progresso e di sviluppo su ogni ramo di attività e una
eliminazione di parassitismo e di ogni ingombrante e dannosa burocrazia.
Non
bisogna metter l’uomo nelle condizioni che possa diventare
il padrone dell’altro uomo ; non bisogna concedergli né riconcedergli
un’autorità, di cui poi tutti debbano sopportare le conseguenze
dannose e subire gli errori e le ingiustizie che vengono consumate
in nome di un potere da noi stessi eletto.
Il
potere per sua natura deve sviluppare due grandi mali che paralizzano
la vita di un intero popolo, e cioè l’accentramento e la
burocrazia.
Stabilire
che a Roma si debbano discutere, approvare, dare ordini, regolare
i rapporti e gli interessi che riguardano collettività che risiedono
a Milano, Torino, Palermo, ecc. è quanto di più errato si possa
pensare e stabilire.
Tutti
anche nelle più dolorose circostanze hanno potuto constatare il
grande fallimento dello Stato.
Infatti
questo che viene costituito, secondo i suoi sostenitori, per tutelare
con maggiore potenzialità, minor dispendio di forze e unità d’intenti
l’interessi delle collettività che deve amministrare, in
pratica ha solo saputo meritarsi la critica e l’imprecazione
generale, perché invece di scongiurare dei mali, di limitare i
danni con pronti provvedimenti, ha dato prova di noncuranza, di
una spaventevole lentezza, causata dal suo mostruoso ingranaggio
burocratico. Il recente disastro calabro-siculo informi.
La
logica dei fatti impone dunque di non dover dar mano ad erigere
delle istituzioni, il cui esponente rappresenta quanto di male
possa colpirci.
Ognuno
confronti il funzionamento dello Stato, che impone ai suoi rappresentanti
ed esecutori l’attesa d’ordini anche nelle circostanze
più gravi, col mirabile risultato che sa sempre dare l’iniziativa
individuale e collettiva, ed avrà subito una dimostrazione chiara
delle verità che noi andiamo da molti anni propagandando e che
vengono chiamate utopie, solo perché troppo grandi e perché impongono
un mutamento radicale delle attuali condizioni di cose.
Tutti
si devono convincere che invece dell’inutile e pesante macchina
dello Stato, i popoli hanno bisogno per il loro benessere di abbattere
tutti gli Stati, siano essi democratici o reazionari, per poter
più presto e bene stabilire tra di loro dei rapporti di scambio
rapidi, diretti e mutabili a seconda dei bisogni e delle innovazioni
che vengono introdotte nelle arti, nelle scienze e nelle industrie.
Lo
Stato che in tutti i paesi del mondo non sa far altro che opera
paralizzatrice delle individuali energie e il grassatore delle
fatiche altrui, deve essere combattuto e non aiutato, deve essere
abbattuto e non modificato.
Quindi,
o lavoratori, quando coloro che ambiscono di diventare i monopolizzatori
di tutto, sciorineranno molti sofismi e vi useranno tutte le blandizie
che il loro animo d’ipocriti dominatori sa abilmente trovare,
ricordatevi che voi non dovete concorrere a dare vita allo Stato
; voi non dovete concorrere a nominare gli uomini che lo impersonificheranno
; voi se volete far trionfare la libertà e la giustizia non dovete
essere né eletti né elettori.
II
. Illusioni sulla legislazione sociale.
Quei
repubblicani, quei socialisti e tutti coloro che nutrono fiducia
sulla legislazione sociale, credono di usare contro di noi l'argomento
principale quando ci dicono, quando dicono ai lavoratori che
è necessario che la classe diseredata abbia in seno al parlamento
– istituzione borghese – i suoi diretti rappresentanti,
i suoi deputati che portino in quell’ambiente grigio la
eco delle proteste e dei dolori dei poveri paria dei campi,
delle miniere e delle officine.
“Siamo
in pochi, questi democratici politicanti dicono, perché non vi
è il suffragio universale, arma potente assai temuta dalla borghesia.
Aiutateci a conseguire questo diritto per tutti i cittadini, per
tutti i lavoratori e noi avremo fatto un gran passo verso l’emancipazione
sociale”.
A
parte gli esempi che si potrebbero citare di paesi dove il diritto
al voto è più esteso che non in Italia ; a parte i risultati incerti
che si potrebbero ottenere se tutta la massa acefala potesse ancor
più in modo pecorile essere guidata alle urne a compiere l’alto
dovere civico!!! ; a parte le ragioni d’indole
morale dette nel precedente capitolo, vi è da tener conto della
resistenza tenace, e nei più dei casi anche violenta, che sa usare
ogni singolo privilegiato contro chi vuole strappargli una parte
dei privilegi che ha saputo imporre alla grande maggioranza dei
produttori con ogni sorta di astuzie e di frodi.
Vi
è stato un tempo in cui quando l’astuto poliziotto Giolitti
amoreggiava coi generali del socialismo italiano – momento
di vergognoso amplesso che essi oggi vorrebbero che fosse da tutti
dimenticato e che ha provocato persino un segreto convegno a Bardonecchia
fra Giolitti ed il futuro ministro Filippo Turati – allora
tutti decantavano i trionfi della legislazione sociale ed i 50
milioni (!!) guadagnati dal proletariato nelle sue ultime agitazioni.
Venne
la realtà cruda dei fatti a dissipare la vacuità delle parole,
gli eccidi proletari imposero silenzio ai politicanti della frazione
estrema, i quali di fronte all’indignazione generale dei
lavoratori dovettero bruscamente troncare i loro incestuosi amori,
seguire la piazza e perdere qualche seggio a Montecitorio.
Anche
allora, come in altre occasioni, la borghesia che si era seriamente
preoccupata della rapidità ed estensione colla quale seppe il
proletariato proclamare lo sciopero generale politico, e comprendendo
quanto era per lei pericoloso che i lavoratori abbandonassero
le vie legali ed incominciassero ad usare l’azione diretta,
se la prese coi capi popolo, scagliò contro costoro tutta la sua
stampa prezzolata, incitò i locandieri, gli affitta camere, la
piccola borghesia, lo stuolo dei servitori delle istituzioni perché
facessero vile ed assordante coro contro i lavoratori, perché
avevano osato – ahi purtroppo! solo per qualche giorno –
di protestare con un po’ di energia contro i sistematici
assassinii di poveri affamati, di smunte donne e di miseri piccini.
Anche
quella misera borghesia che si compiace in tempi di bonaccia di
farsi chiamare liberale, seppe con eguale veemenza e criteri reazionari
condannare l’impulso generoso dei lavoratori, seppe con non
minore rabbia fare pressioni contro i duci delle schiere proletarie,
contro i politicanti dei partiti popolari, affinchè richiamassero
i ribelli alla consuetudinaria docilità e alla cieca fiducia nella
legislazione sociale.
La
borghesia più intelligente comprese che il concedere alla classe
sfruttata qualche riconoscimento ufficiale e accettare il principio
della legislazione sociale, non costituiva per essa alcun pericolo.
Quello che seriamente teme e che vuole con ogni mezzo scongiurare
è la sfiducia nei metodi legalitari ; non vuole che si dilaghi
fra la grande massa lavoratrice la fiducia nell’azione diretta,
nell’azione singola, nell’azione prettamente rivoluzionaria,
perché assai bene comprende che questa segnerebbe il principio
della sua fine.
Ecco
perché noi anarchici moviamo aspra guerra ai nostri avversari
che adescano i lavoratori col miraggio dei grandi (??) benefici
della legislazione sociale. I poveri abbrutiti dalle fatiche,
dalla miseria e dall’ignoranza ascoltano questi progettisti
delle pacifiche conquiste, prendono tutto sul serio, credono che
basti stabilire con un articolo di legge un miglioramento qualsiasi
perché venga dopo poco attuato ; imparano a venerare i loro leggiferatori
come gli antichi cristiani veneravano il loro Cristo ; ed intanto
il tempo scorre ed i senza pane ed i senza tetto continuano la
loro parte di docili macchine produttive, seguitando a produrre
per altri e lusingandosi sempre di vedere spuntare per opera della
legislazione sociale il simbolico e decantato sole… dell’avvenire
apportatore di benessere e giustizia per tutti.
Intanto
messi su una falsa via iniziano agitazioni sterili, che non danno
né possono dare alcun pratico risultato, vanno dietro ora a questo
ora a quell’arruffone politicante ; chiedono i pochi soldi
di aumento di salario, lusingandosi che tale aumento procaccerà
loro maggiore benessere, mentre invece non s’accorgono che
per la legge ferrea del salario, derivante dall’attuale sistema
di economia politica, essi concorrono a far rialzare artifiziosamente
il costo generale della vita – a maggiore vantaggio degli
sfruttatori – ed essi rimangono sempre dei poveri diseredati,
coloro che tutto devono pagare e che per tutti devono soffrire.
Fino
a tanto che rimarrà saldo come principio la proprietà privata
e il salario costituirà la pietra di paragone del compenso del
lavoro umano ; fino a tanto che i principi della finanza saranno
lasciati i padroni delle ricchezze ed i monopolizzatori di tutti
i prodotti, saranno pure i trionfatori del potere, gli alleati,
i protetti e gli ispiratori dello Stato e della Chiesa, ed ai
lavoratori, ad onta delle apparenti concessioni e miglioramenti,
rimarrà soltanto quanto loro necessita per non morir di fame.
I
pingui e tristi eroi dell’oro cedono soltanto quando sono
costretti a farlo, e a tutta quella gente che s’illude ed
illude di poter armonizzare il capitale col lavoro, non potrebbe
danneggiare maggiormente gli interessi dei non abbienti.
Si
prova un profondo disgusto a vedere della gente che vorrebbe passare
per sincera e per chiaroveggente, dimenticare i punti sostanziali
della questione sociale e per amore di un vile seggio nelle amministrazioni
pubbliche o al parlamento smorzare ogni ardore giovanile, soffocare
ogni impeto generoso, e, per rendersi accetti a tutti gli elettori
delle diverse graduazioni politiche e sociali, smussare tutte
le angolosità del proprio pensiero, e anzi fare dei veri sforzi
per renderlo incomprensibile e accettabile alla massa amorfa,
che non sa pensare né vuole fare sforzi per comprendere.
E
più disgusto suscitano quei giovani, che dicono di appartenere
alle file dell’avanguardia del socialismo, quando si vedono
prendere parte attiva agli ibridi connubi ed affannarsi per andare
alla ricerca di un candidato qualsiasi, perché questi si prenda
il disturbo di fare qualche piccola promessa e qualche insignificante
dichiarazione di fede incerta.
No,
in questo caso meglio è trincerarsi nel silenzio, se non si sa
o non si vuole risvegliare l’animo sopito del popolo. Se
essi non vogliono essere i pionieri di ardenti verità, se non
vogliono essere i pugnaci combattenti contro le cattive presenti
istituzioni e conto uomini corruttori e corrotti, almeno non partecipino
agli intrighi, abbandonino il popolo a se stesso piuttosto che
ingannarlo, piuttosto che trascinarlo in vie contorte che lo fanno
allontanare dalla soluzione del tormentoso problema sociale.
Se
invece veramente amano il popolo, se vogliono educarlo, incoraggiarlo
e consigliarlo, essi devono rimanere col popolo e fra il popolo.
Da questo trarranno sempre novella audacia ed eviteranno così
il pericolo di diventare le giudiziose scimmie ammaestrate
del baraccone nazionale.
III . Che
fare?
Arrivati
a questo punto mi pare di sentirmi da ogni parte rivolgere la
domanda : Che fare dunque? Io rispondo con una sola parola :
la rivoluzione.
Questo
malessere generale che ormai si acutizza in tutte le classi dei
lavoratori – siano essi operai manuali o cultori del genio
o del fecondo pensiero – si estende anche nelle altre categorie
meno potenti, meno privilegiate, le quali cercano con ogni mezzo
di non essere completamente travolte dalla lotta per la vita.
Questo
disagio quasi generale rappresenta le prime scosse della terra
in quel punto dove non si è ancora definitivamente assestata,
e l’assestamento verrà dopo una grande scossa, dopo un tremendo
terremoto. Quindi anche la natura c’insegna che noi non possiamo
mutare radicalmente i rapporti economico-sociali se non compiamo
l’atto rivoluzionario, l’atto definitivo che deve completare,
anzi attuare, quella rivoluzione che già è avvenuta nel pensiero
nostro. Tutto il resto è vana retorica, se non è spudorata menzogna.
Il
trionfo del quarto d’ora, la soluzione del problema della
giornata, il riconoscimento legale dei diritti che altri devono
poi concedere ; l’attesa del proprio benessere della
sapienza, dell’onestà, dall’attività di altri, sono
tutti palliativi, tutti ritardi, tutte illusioni, tutte mistificazioni.
La
rivoluzione non è un capriccio, non è una degenerazione, non è
una malvagità, ma è una necessità.
Bisogna
che ogni uomo possa assestarsi sulla terra come egli vuole, bisogna
che si senta completamente libero nei suoi atti e nel suo pensiero,
bisogna che l’individuo non s’imponga alla collettività,
come la collettività all’individuo, e ciò non può venire
se non col trionfo della grande rivoluzione livellatrice e liberatrice
di tutte le ingiustizie, di tutte le miserie e di tutte le schiavitù.
Solo
allora si verrà stabilendo il vero equilibrio sociale, che darà
inizio ad una novella gagliarda vita che sarà veramente vissuta
da ogni individuo, perché tutti educati alla scuola dell’operosità
e della libera iniziativa.
Come
già in altro punto di questo modestissimo lavoro ho detto, saranno
gli stessi bisogni che regoleranno i rapporti fra individui, collettività
e popoli ; saranno i bisogni che regoleranno le attività, le iniziative,
la produzione e gli scambi dei prodotti.
Però
bisogna che anche i rivoluzionari e gli anarchici un po’
alla buona, comprendano che la rivoluzione non è la rottura di
un vetro, la ribellione sciocca alle guardie in un momento di
sbornia, ma è l’azione costante, coscientemente ribelle a
tutte le presenti ingiustizie, a tutte le attuali concezioni economiche
politiche.
Bisogna
fare il grande vuoto all’attuale edifizio sociale, sottrargli
quanto più sta in noi i difensori ed i coadiuvatori, non bisogna
lasciarci assorbire né moralmente né finanziariamente, non bisogna
alimentarlo, ma scavargli l’abisso che lo travolga.
E
voi, o lavoratori di campi e delle officine, voi che pur seminando
e mietendo ciò che è il frutto delle fatiche vostre dovete tutto
consegnare a chi nulla produce, voi che costruendo macchine, case,
mobili, vesti, oggetti di bellezza e d’arte dovete rimanere
sempre miseri, sempre schiavi, sempre iloti, comprendeteci una
buona volta, ascoltate i nostri consigli, cominciate a scacciare
lontani da voi i pastori della Chiesa e dello Stato e lo stuolo
dei politicanti, ed unitevi alle nostre falangi ribelli che lottano
per il trionfo dell’integrale emancipazione umana, per il
trionfo del tanto temuto, calunniato ma pur tanto bello e grande
ideale dell’Anarchia.
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