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IL DIRITTO DI IGNORARE LO STATO
di Herbert Spencer

Estratto  dal cap. XVIII (terza parte di si Social Statics: or the Conditions Essential to Human Happiness Sprofield and The First of Them  Developed, London, Chapman, 1851)

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Come corollario alla proposizione che tutte le istituzioni debbano essere subordinate alla legge di eguale libertà, dobbiamo necessariamente ammettere per il cittadino il diritto di porsi volontariamente fuori dalla legge. Se ogni uomo ha la libertà di fare tutto ciò che vuole, purché non violi la eguale libertà di qualche altro, allora deve essere libero di rompere ogni rapporto con lo Stato, di rinunziare alla sua protezione e di rifiutare di pagarne il mantenimento. E’ evidente che agendo così non usurpa in nessun modo  la libertà degli altri, giacché il suo atteggiamento è passivo, e finché resta tale egli non può diventare un aggressore. E’altrettanto evidente che egli non può essere costretto a continuare a far parte di una comunità politica senza una violazione della legge morale, poiché la qualità di cittadino implica il pagamento di tasse e il sequestro dei beni di un uomo contro la sua volontà è una violazione dei suoi diritti. Dal momento che il governo è semplicemente un agente mantenuto in comune da un certo numero di individui per assicurarsi determinati vantaggi, la natura stessa di questo rapporto implica che ognuno deve dire se vuole o no impiegare un tale agente. Se uno decide d’ignorare questa  confederazione di reciproca sicurezza, non c’è nulla da ridire, se non che egli perde ogni diritto ai suoi servizi e si espone al rischio di un cattivo trattamento; cosa che gli è perfettamente lecito fare se gli conviene. Non può essere mantenuto a forza in una combinazione politica senza violazione della legge d’eguale libertà; può uscirne senza commettere alcuna violazione di tal genere; ha quindi il diritto di uscirne.
II
“Nessuna legge umana è valida  se è contraria alla legge naturale, e alcune delle leggi umane che sono  valide traggono tutta la loro forza e tutta la loro autorità, mediatamente o immediatamente, da codesta legge originale”. Così scrive Blackstone, che qui ha il merito di aver superato  le idee del suo tempo – e, veramente, possiamo dire del nostro tempo. Un buon antidoto, codesto,  contro quelle superstizioni politiche che prevalgano così largamente. Un buon freno al sentimento di adorazione del potere che ancora oggi ci travia  portandoci ad esagerare le prerogative dei governi costituzionali, come già una volta quelle dei monarchi. Sappiano gli uomini che il potere legislativo “non è il nostro Dio sulla terra” benché, per l’autorità che gli attribuiscono e per le cose che si aspettano, sembra proprio che se l’immaginino così. O meglio, sappiamo che è un’istituzione che serve a fini puramente temporanei la cui autorità, quando non è rubata, è almeno presa in prestito. E, ciò che veramente conta di più, non abbiamo visto che il governo è essenzialmente  immorale? Che è la posterità del male, con tutti i segni della sua origine? Che esiste perché esiste il delitto? Che è forte, o come diciamo noi, dispotico soltanto quando il delitto è grande?  E che c’è maggior libertà  - cioè minor governo – man mano che diminuisce il delitto? E il governo non è costretto a cessare quando cessa il delitto, per mancanza di oggetti su cui esercitare la sua funzione? Non solo il potere dei padroni esiste “a causa” del male, ma esiste “per mezzo” del male. Per mantenerlo si usa la violenza, e ogni violenza comporta criminalità. Soldati, poliziotti  e carcerieri, spade, bastoni e catene sono strumenti per infliggere pene, e ogni inflizione di pena è essenzialmente ingiusta. Lo Stato usa le armi del male per soggiogare il male e resta contaminato tanto dagli oggetti su cui agisce  quanto dai mezzi con cui opera. La moralità non può riconoscere lo Stato perché la moralità, essendo semplicemente un’espressione della legge perfetta,  non può dare appoggio ad alcuna cosa che cresca fuori di questa legge e sussista  esclusivamente per le violazioni che compie. Perciò l’autorità legislativa non può mai essere morale; deve essere soltanto convenzionale. C’è quindi una certa incoerenza nel tentativo di determinare la posizione, la struttura e la condotta giuste di un governo facendo appello ai primi principi d’equità. Poiché, come abbiamo dimostrato, gli atti di un’istituzione che è imperfetta , tanto per natura che per origine, non possono essere fatti per andare d’accordo con la legge perfetta. Tutto quello che possiamo fare è stabilire: in primo luogo, in quale atteggiamento deve restare rispetto alla comunità un potere legislativo per evitare di essere, col solo fatto della sua esistenza, l’ingiustizia personificata; in secondo luogo, in quale modo deve essere costituito per mostrarsi quanto meno è possibile in opposizione  con la legge morale; e in terzo luogo, a quale sfera debbono essere limitate le sue azioni  per impedirgli di moltiplicare quelle violazioni dell’equità  per la prevenzione delle quali esso è istituito. La prima condizione a cui bisogna conformarsi prima che un potere legislativo possa essere stabilito senza violare la legge d’eguale libertà è il riconoscimento del diritto attualmente in discussione: il diritto di ignorare lo Stato.
III
I partigiani del puro dispotismo possono  perfettamente immaginare che il controllo dello Stato debba essere illimitato e incondizionato. Quelli che affermano che gli uomini sono fatti per i governi, e non già i governi per gli uomini, sono qualificati per sostenere logicamente che nessuno possa porsi oltre i limiti dell’organizzazione politica.  Ma quelli che sostengono che il popolo è l’unica fonte legittima di potere – che l’autorità legislativa non è originaria ma delegata – costoro non potrebbero ignorare il diritto di ignorare lo Stato  senza rinchiudersi in un’assurdità. Giacché se l’autorità legislativa è derivata, ne segue che quelli dai quali procede sono i padroni di quelli ai quali è conferita; ne segue, inoltre, che come padroni conferiscono la detta autorità volontariamente; il che implica che possono darla o ritirarla a loro piacimento. Chiamare delega di poteri ciò che viene strappato agli uomini, senza tener conto del loro volere, è un’assurdità. Ma quel che è vero qui di tutti collettivamente è pure vero di ognuno in particolare. Come un governo non può agire per il popolo se non quando vi è da esso autorizzato, così non può giustamente agire per l’individuo se non quando da questi è autorizzato.
Se A, B e C deliberano se debbono impiegare un agente che compia per loro un determinato servizio, e se, mentre A e B convengono di farlo, C è di parere contrario, C non può essere considerato equamente partecipe della convenzione a dispetto di se stesso. E ciò deve essere parimenti vero per trenta come per tre; e se per trenta, perché non trecento, o tremila, o tre milioni?
Delle superstizioni politiche a cui abbiamo alluso precedentemente, nessuna è così universalmente diffusa come l’idea secondo la quale le maggioranze dovrebbero essere onnipotenti. Sotto l’impressione che il mantenimento dell’ordine esigerà sempre che il potere sia in mano di qualche partito, il senso morale del nostro tempo giudica che un tale potere non possa essere convenientemente conferito  se non alla maggioranza della società. Interpreta alla lettera il detto: “ La voce del popolo è la voce di Dio” e, trasferendo all’uno la santità dell’altro, conclude che la volontà del popolo – cioè della maggioranza – è senza appello. Eppure questa credenza è completamente falsa. Supponete per un momento che, preso da un panico maltusiano, un potere legislativo, rappresentante debitamente l’opinione pubblica,  progettasse di ordinare che dovessero annegarsi tutti i figli  nati in un periodo di dieci anni. C’è qualcuno che pensa che possa sostenersi un tale atto legislativo? Se no, c’è evidentemente un limite al potere della maggioranza. Supponete ancora che di due razze viventi insieme – Celti e Sassoni, per esempio – la più numerosa decidesse  di ridurre suoi schiavi tutti gli individui dell’altra razza. L’autorità della maggioranza, in tal caso, sarebbe valida? Se no, c’è qualcosa a cui quell’autorità deve essere subordinata. Supponete, ancora una volta, che tutti gli uomini aventi una rendita annua di meno di 50 sterline decidessero  di ridurre a questa cifra tutte le rendita che la superano e di devolvere l’eccedenza ad usi di pubblica utilità. La loro decisione potrebbe essere giustificata? Se no, bisogna riconoscere, per la terza volta, che c’è una legge di cui deve tener conto l’opinione popolare. E che cosa è questa legge se non la legge di pura equità, la legge d’uguale libertà? Queste limitazioni, che tutti vorrebbero porre alla volontà della maggioranza, sono precisamente le limitazioni fissate da questa legge. Noi neghiamo ad una maggioranza il diritto di assassinare , di ridurre in schiavitù e di rubare, semplicemente perché l’assassinio, la schiavitù  e il furto sono violazioni della legge, violazioni troppo flagranti per essere trascurate. Ma se le grandi violazioni di questa legge sono inique, lo sono egualmente anche le piccole. Se la volontà della maggioranza non può annullare il primo principio della moralità in quei casi, tanto meno lo può in qualsiasi altro caso. Di guisa che, per quanto insignificante sia la minoranza e minima la trasgressione dei suoi diritti che viene proposta, nessuna trasgressione di tal genere può essere lecita. Quando avremo resa la nostra costituzione assolutamente democratica, pensa dentro di sé l’ardente riformatore, avremo messo il governo in armonia con la giustizia assoluta. Una tale fede, benché forse necessaria per l’epoca, è completamente erronea. In nessun modo la coercizione può essere resa equa. La più libera forma di governo è appena quella che solleva il minor numero di obiezioni. Il dominio della minoranza sulla maggioranza lo chiamiamo tirannia; il dominio della maggioranza sulla minoranza è ugualmente tirannia, ma di carattere meno intenso. “Voi farete come vogliamo noi, e non come volete voi” è la dichiarazione fatta nell’uno e nell’altro caso; e se cento individui la fanno a novantanove, anziché novantanove a cento, è meno immorale soltanto di una frazione. Di tali due partiti, quello, qualunque sia, che fa questa dichiarazione e ne impone l’applicazione viola necessariamente la legge d’eguale libertà; l’unica differenza è che dall’uno è violata nella persona di novantanove individui, mentre dall’altro è violata nella persona di cento. E il merito della forma democratica di governo consiste soltanto in ciò che offende il minor numero. Già soltanto l’esistenza di maggioranze e minoranze  è indice di uno stato di immoralità. Abbiamo visto che l’uomo il cui carattere è in armonia con la legge morale può ottenere la completa felicità senza diminuire la felicità dei suoi simili. Ma l’istituzione di pubblici accomodamenti col voto implica una società composta di uomini altrimenti costituiti; implica che i desideri di taluni non possano essere soddisfatti senza sacrificare i desideri degli altri; implica che nella sua ricerca di felicità la maggioranza infligga una certa dose di infelicità alla minoranza; implica quindi l’immoralità organica. Così, da un altro punto di vista, scopriamo di nuovo che anche nella sua forma più equa è impossibile al governo dissociarsi dal male; e, inoltre che, a meno che non sia riconosciuto il diritto di ignorare lo Stato, i suoi atti debbono essere essenzialmente criminali.
IV
Che un uomo possa essere libero di rinunciare ai benefici della qualità di cittadino e rifiutarne gli oneri può, in verità, essere dedotto dalle ammissioni d’autorità esistenti e dall’opinione attuale. Sebbene probabilmente non preparati a una dottrina come quella qui sostenuta, i radicali d’oggi, benché a loro insaputa, professano la loro fede in una massima che manifestamente incarna questa dottrina. Non li sentiamo citare continuamente l’asserzione di Blackstone secondo la quale “nessun suddito inglese può essere costretto a pagare contributi o tasse anche per la difesa del regno o per il mantenimento del governo, salvo quelle che gli sono imposte col suo consenso o con quello del suo rappresentante in Parlamento”? E che significa ciò? Significa, dicono i radicali, che ogni uomo dovrebbe avere il diritto di voto. Senza dubbio; ma significa anche molto di più. Se un senso c’è in quelle parole, è l’enunciazione precisa del medesimo diritto per cui qui combattiamo. Affermando che un uomo non può essere tassato, a meno che no abbia, direttamente o indirettamente, dato il suo consenso, si afferma pure che può rifiutarsi d’essere così tassato, significa rompere ogni relazione con lo Stato. Si dirà forse che questo consenso non è specifico, ma generale, e che si sottintende che il cittadino abbia dato il suo consenso a ogni cosa che possa fare il suo rappresentante, quando votò per lui. Ma supponete che non abbia votato per lui e che anzi abbia fatto tutto poteva per eleggere qualcun altro che sosteneva idee opposte: e allora? La risposta sarà probabilmente che partecipando  ad una simile elezione, egli accettava tacitamente di rimettersi alle decisioni della maggioranza. E se poi non ha votato affatto? Ma allora non può a buon diritto lagnarsi di alcuna tassa, dal momento che non elevò alcuna protesta contro l’imposizione di essa! Così, abbastanza stranamente, pare che egli dia il suo consenso  in qualunque modo agisca: sia che dica “Si”, sia che dica “No”, sia che resti neutrale! Una dottrina piuttosto imbarazzante! Ecco un disgraziato cittadino a cui si domanda se vuol pagare un certo vantaggio proposto; e, sia che usi l’unico mezzo d’esprimere il suo rifiuto sia che non lo usi, ci fa sapere che praticamente vi acconsente, che semplicemente il numero degli altri  che vi acconsentono è maggiore del numero di quelli  che rifiutano. E così siamo condotti allo strano principio che il consenso di A ad una cosa non è determinato da ciò che dice A, ma da ciò che B può venire a dire! Quelli che citano Blackstone debbono scegliere tra questa assurdità e la dottrina sopra esposta. O la sua massima implica il diritto di ignorare lo Stato  o è una volgare sciocchezza.
V
C’è una singolare eterogeneità nelle nostre fedi politiche. Certi sistemi che sono passati di moda e qua e la cominciano a essere trasparenti vengono rappezzati da capo  a fondo con idee moderne di qualità e colore diversi;  e gli uomini, con aria d’importanza, sfoggiano questi sistemi, se ne rivestono e vanno in giro pavoneggiandosi, completamente inconsci del loro grottesco. Il nostro attuale stato di transizione, partecipando egualmente del passato e del futuro, fa nascere teorie ibride in cui si manifesta la più disparata accozzaglia del dispotismo passato e delle libertà futura. Ecco alcuni tipi della vecchia organizzazione stranamente rivestiti  sotto i germi della nuova - delle particolarità mostranti l’adattamento ad uno stato antecedente modificato da rudimenti che profetizzano qualcosa di avvenire -  che fanno tutti insieme un miscuglio così caotico di parentele che nulla indica a quale classe bisognerebbe attribuire questi figli del secolo. Poiché le idee debbono portare necessariamente l’impronta del tempo, è inutile deplorare la soddisfazione con cui vengono sostenute queste assurde credenze. D’altra parte, parrebbe increscioso che gli uomini non continuassero sino alla fine le serie di ragionamenti che hanno condotto a quelle modificazioni parziali. Nel caso precedente, per esempio, la logica li costringerebbe ad ammettere che, su altri  punti prossimi a quello che abbiamo esaminato, essi stessi sostengono opinioni ed usano argomenti in cui è racchiuso il diritto di ignorare lo Stato. Infatti, qual è il significato del non-conformismo? Ci fu un tempo in cui la fede religiosa di un uomo e la forma del culto erano determinabili dalla legge così come i suoi atti secolari; e, conformemente a certe disposizioni esistenti nelle nostre leggi, è ancora così. Tuttavia, grazie allo sviluppo di una mentalità protestante siamo arrivati ad ignorare lo Stato in questa maniera – completamente in teoria e parzialmente in pratica. Ma in qual modo? Adottando un atteggiamento che, purché sia mantenuto conforme al suo principio,  implica un diritto d’ignorare completamente lo Stato. Osservate l’atteggiamento dei due partiti. “Questo è il vostro credo” dice il legislatore, “dovere credere e professare apertamente  ciò che qui è fissato per voi”. – “Io non farò nulla di tutto ciò” risponde il non-conformista, “piuttosto andrò in prigione”. “I vostri atti religiosi”, prosegue il legislatore, “saranno quali noi li abbiamo prescritti. Andrete nelle chiede che abbiamo fondato e seguirete le cerimonie che vi sono celebrate”. – “Nulla potrà indurmi a far così”, è la risposta, “io nego assolutamente la vostra autorità a dettarmi chicchessia in tale maniera e mi propongo di resistere fino all’estremo”. “Infine”, aggiunge il legislatore, “vi ingiungeremo di pagare delle somme che potremo giudicare opportuno chiedervi per il mantenimento di queste istituzioni religiose”. “non mi caverete un soldo”, protesta il nostro ostinato indipendente “anche se credessi nei dogmi della vostra Chiesa (ciò che non è) mi ribellerei ugualmente contro il vostro intervento , e se prenderete quanto posseggo, ciò avverrà con la forza malgrado la mia protesta”.
Ora, a che si riduce questo modo di agire considerato in astratto? Si riduce ad una affermazione da parte dell’individuo del diritto di esercitare una delle sue facoltà – il sentimento religioso -  in piena libertà e senza altro limite che quello stabilito dall’eguale diritto altrui. E che significa l’espressione “ignorare lo Stato”? Semplicemente un’affermazione del diritto di esercitare liberamente “tutte” le facoltà. L’uno è esattamente una continuazione dell’altro – ha il medesimo fondamento – deve resistere o cadere con l’altro. In buona fede, gli uomini parlano della libertà civile e della libertà religiosa; ma la distinzione è del tutto arbitraria. Ambedue appartengono ad un medesimo tutto e filosoficamente non possono essere separate. “Ma si, lo possono”, interrompe un contraddittore, “l’affermazione dell’una è imperativa essendo un dovere religioso. La libertà d’onorare Dio nel modo che gli sembra conveniente è una libertà senza la quale un uomo non può compiere ciò che egli crede essere uno dei comandamenti divini, e quindi la sua coscienza esige che egli la difenda”. Benissimo; ma la stessa cosa non si può affermare di ogni altra libertà? Come separare la libertà, se anche la difesa di quest’altra si trasforma in materia di coscienza? Non abbiamo visto che la felicità umana è la volontà divina – che questa felicità non può essere ottenuta che con l’esercizio delle nostre facoltà – e che è impossibile esercitarle senza la libertà? E se questa libertà per l’esercizio delle nostre facoltà è una condizione senza la quale non si può compiere la volontà divina, ecco che, seguendo la stessa dimostrazione del nostro contraddittore, la difesa di essa è un dovere. In altre termini è chiaro non solo che la difesa della libertà d’azione”può” essere una questione di coscienza, ma che anzi “deve” esserlo. E se così vediamo chiaramente che il diritto d’ ignorare lo Stato in materia religiosa e il diritto d’ignorare lo stato in materia secolare sono  sostanzialmente la stessa cosa. L’altra ragione comunemente riconosciuta al non-conformista  ammette un analogo trattamento. Oltre che resistere alla prescrizione dello Stato per principio, il dissidente vi resiste per disapprovazione della dottrina insegnata. Nessuna ingiunzione legislativa può fargli adottare ciò che egli considera una falsa credenza; e, memore dei suo dovere verso i suoi simili, rifiuta di contribuire con la propria borsa a diffondere questa credenza. L’atteggiamento è pienamente comprensibile. Ma è un atteggiamento che, o conduce anch’esso i suoi aderenti al non-conformismo civile, o li lascia in un dilemma. Infatti, perché rifiutano di contribuire a propagare l’errore?  Perché l’errore è contrario alla felicità umana. E per quale motivo si disapprova una qualsiasi parte della legislazione civile? Per la stessa ragione: perché la si giudica contraria alla felicità umana. E allora come si potrebbe dimostrare che si deve resistere allo Stato nell’un caso e non nell’altro? Ci sarà chi affermi liberamente che, se un governo ci chiede del denaro per contribuire ad “insegnare” ciò che noi pensiamo debba produrre il male, dobbiamo rifiutarglielo, ma che non dobbiamo rifiutarglielo  se il denaro è destinato a “fare” ciò che noi pensiamo debba produrre il male? Eppure questa è l’incoraggiante proposizione che debbono sostenere coloro che riconoscono il diritto d’ignorare lo Stato in materia religiosa, ma lo negano in materia civile.
VI

La materia di questo capitolo ci presenta ancora una volta l’incompatibilità esistente tra una legge perfetta e uno Stato imperfetto. La praticabilità del principio qui stabilito varia in ragione diretta con la moralità sociale. In una comunità completamente viziosa , la sua ammissione produrrebbe il disordine. In una comunità interamente virtuosa, la sua ammissione sarebbe a un tempo innocua ed inevitabile. Il progresso verso una condizione di salute sociale – cioè una condizione in cui non ci sarà bisogno delle misure terapeutiche della legislazione – è il progresso verso una condizione in cui queste misure terapeutiche  saranno respinte  e sarà disprezzata l’autorità  che le prescriveva. Le due trasformazioni saranno necessariamente coordinate. Questo senso morale la cui supremazia renderà la società armonica  e il governo inutile è lo stesso senso morale che allora porterà ogni uomo ad affermare  la sua libertà, sino al punto di ignorare lo Stato – è lo stesso senso morale che, distogliendo la maggioranza dal costringere la minoranza, renderà finalmente impossibile il governo. E poiché le manifestazioni semplicemente differenti d’un medesimo sentimento debbono mostrare un costante rapporto  tra loro, la tendenza a ripudiare i governi aumenterà solo man mano che i governi diventeranno inutili. Che nessuno sia dunque allarmato dalla dottrina che precede. Numerosi cambiamenti dovranno ancora aver luogo prima che possa cominciare ad esercitare molta influenza. Passerà probabilmente un  periodo di tempo ancora maggiore prima che riceva il riconoscimento legislativo. E anche allora ci sarà abbondanza di freni al suo prematuro esercizio. Una dura prova istruirà abbastanza coloro che potranno essere capaci d’abbandonare troppo presto la protezione legale. Tuttavia, c’è nella maggioranza degli uomini un tale amore degli accomodamenti  già stabiliti che, verosimilmente, si asterranno dal fare uso di questo diritto finché finalmente l’usarne sarà senza pericoli.